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Olivier Assayas presenta Personal Shopper: «Dario Argento è il più grande di tutti»

Olivier Assayas è passato da Roma, più precisamente dal cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, per presentare Personal Shopper, il suo ultimo raffinatissimo e coraggiosissimo film accolto in maniera controversa e contrastata al festival di Cannes lo scorso maggio. Col suo italiano sicuro, ricco e dal fonte accento transalpino il regista francese ha raccontato, nel corso di una densa e stimolante conferenza stampa, la sua seconda collaborazione con Kristen Stewart dopo Sils Maria con generosità, profondità, abbondanza di dettagli.


Com’è nato il progetto Personal Shopper


Molto nasce dal fallimento di un film che dovevo fare con Robert De Niro e Robert Pattinson, abbiamo perso i finanziamenti il giorno prima di iniziare a girare ed è stato un vero disastro. Allora mi sono messo a lavorare su quest’idea di una giovane ragazza straniera a Parigi. Sicuramente avevo in mente Kristen fin dall’inizio, avevamo lavorato insieme fino a sei mesi prima per Sils Maria ma non sapevo se sarebbe stata interessata. All’inizio Personal Shopper era qualcosa di più sperimentale, ma la prima persona a cui ha dato la sceneggiatura è stata proprio Kristen. Se non avesse accettato non so a quale attrice avrei potuto dare il film, era scritto per lei fin dall’inizio. La nostra dinamica, la nostra collaborazione ci permette di fare delle cose che non posso fare con delle altre attrici. Anche se c’è il soprannaturale di mezzo Kristen ne fa qualcosa di molto reale, perché ha questa fisicità e questa semplicità all’interno della quale può improvvisare, con una posizione più attiva dei film americani che fa.


Kristen Stewart nell’immaginario di noi tutti è una celebrity. Tu l’hai presa da star e l’hai costretta a confrontarsi con se stessa, a mettersi allo specchio. 


Non l’ho inventata certo io, lei aveva talento ed era geniale anche prima di incontrarmi. Ho solo avuto la capacità di chiederle di essere se stessa. Prima i film erano dipendenti dai suoi personaggi, ma lei aveva questa frustrazione costante di non poter essere se stessa sullo schermo che a me pareva di avvertire in maniera tangibile nelle sue interpretazioni. I nostri due film si potevano fare solo spostando il peso della sua celebrità, su Juliette Binoche in Sils Maria e sulla diva del mio ultimo film, personaggio che non si vede mai e che è ancora più astratto, qui in Personal Shopper.


Il soprannaturale in molti film, specialmente hollywoodiani, è solo accennato. In questo caso invece le entità si vedono, non sono ben chiare ma sono molto esplicite. 


Quando si parla di soprannaturale si parla di incoscienza e io credo che ciò che accada dentro di noi sia più reale della realtà materialistica con cui ci confrontiamo ogni giorno. Avevo bisogno di materializzare questo aspetto per creare una circolazione tra il visibile e l’invisibile, specie per un personaggio che non è una copia ma ha una vita interiore così ricca e tangibile, forse perfino più essenziale, per le aspirazioni e i fantasmi di Maureen stessa ma anche per i nostri. I nostri fantasmi e i nostri sogni sono più reali del lavoro che faccio ogni giorno per pagare l’affitto, probabilmente (sorride).


C’è molta tecnologia nel film.


Non sono così interessato alla tecnologia in sé e per sé, ma al modo in cui ci ha trasformato. L’uso dello smartphone trasforma l’esperienza umana, essere collegati sempre a qualcuno, amici, amanti, famiglia, colleghi di lavoro, ci rende sempre legati a un network, a un prolungamento della nostra memoria e del nostro sapere, ma anche alla totalità della storia e del sapere umano. Questo ci rende essere umani diversi. Nel film io lo faccio in maniera molto modesta e abbozzata in verità, ma c’è molto di più da fare per esplorare questa evoluzione chiave della storia umana nella quale siamo tutti immersi.


Al di là dello spiritualismo, stupisce il suo approccio libero e frontale al genere, con quella sequenza dell’omicidio ad esempio che potrebbe stare tranquillamente in un horror o in un thriller ed è girata meravigliosamente. 


Questo film l’ho immaginato come un quadro un po’ astratto dove si utilizzano colori e linee in maniera prossima allo astrazione: allo stesso modo io ricorro al genere, come fosse un colore rosso o un’altra tinta. Si tratta di una relazione che non crea necessariamente qualcosa di psicologico, ma bisognava fare in modo che lo spettatore si identificasse fisicamente col personaggio di Maureen interpretato da Kristen e si poteva fare solo utilizzando questa tipologia di sintassi. Io volevo fare un film diverso dai film di genere americani, dove il visibile è buono e l’invisibile è cattivo e il visibile dissimula e nasconde l’incarnazione del male. Volevo fare un film dove l’invisibile fosse potenzialmente benigno e dunque anche creativo. Inoltre Victor Hugo, presente nel film, è uno degli scrittori europei ottocenteschi che ha esplorato nel modo più serio e probabilmente affascinante la comunicazione con l’aldilà. Intendevo instaurare questa connessione anacronistica tra presente e passato, che per me è un chiave costante.


Come ha lavorato sul mondo della moda e degli atelier, così presenti in Personal Shopper?


Ho fatto partire il film da questa tensione tra la nostra vita materialistica e delle tensioni spirituali universali. Ho esagerato questa tensione per usare il mondo della moda e del lusso come un background della storia, per far sì che quell’ambivalenza entrasse in gioco nel lutto del personaggio, nel suo doversi reinventare e ricostruire dopo una perdita gravissima, avendo lei perso la metà di se stesso che era Lewis, suo fratello. Questo processo riguarda anche il recupero della sua identità sessuale, in un universo esplorativo che attrae e insieme respinge, come nella scena in cui si mette totalmente a nudo per ritrovare se stessa e si cimenta in una nuova vestizione di sé. Siamo tutti consapevoli che viviamo in un mondo troppo materialista e tutti abbiamo delle aspirazioni puntualmente diverse. L’assurdità del mercato dell’arte contemporanea ci rende ciechi a cosa c’è di importante sotto. Si può però astrarre per focalizzarsi su ciò che rimane, sotto la superficie monetaria, di più profondo. Non si percepisce molto forse, ma il film ha un budget molto piccolo. Dipendevamo molto dalla disponibilità di Chanel, che ci ha concesso di girare nel loro show-room prestandoci le loro gonne. Mia madre era una stilista, andavo nel suo studio e vedevo le sue collezioni da ragazzo. Sono sempre stato vicino al mondo della moda.


In molti in America hanno scritto che il tuo è un film hitchcockiano. 


A tal proposito posso dire che mi fanno paura gli uccelli e mi pareva buffo che a Kristen non facessero paura per niente! Quando giro provo a non essere influenzato, tento di fare dei film che sono delle manifestazioni della mia espressione e manifestazione del mondo, oltre che della mia percezione delle cose. Se un regista ha fatto qualcosa di interesse non vedo perché bisogna rifarlo, per cui rispondo alla mia ispirazione personale. Quando ho iniziato a fare dei film ed ero un giovanissimo critico di cinema sono stato influenzato soprattutto dal cinema di genere, da John Carpenter, Wes Craven, David Cronenberg e forse dal più grande di tutti, Dario Argento. Questi egisti che mi hanno molto influenzato non sono registi di serie B ma per me sono registi di serie A+, perché hanno accesso a una dimensione più profonda dell’esperienza umana.


Notizia di oggi è che dirigerai il thriller Wasp Network. Saresti così gentile da farci il punto sui tuoi prossimi progetti? 


Ho scritto con Polanski l’adattamento di una novella, D’après une histoire vraie, e lui ha girato il film. Non ho ancora visto nulla, è al montaggio al momento, ma è stato un lavoro enormemente interessante e io sono un grandissimo fan di Polanski e del suo lavoro. C’è in ballo un altro thriller che dovevo fare e che non è sicuro se si farà o meno, ma di sicuro farò Wasp Network, il progetto su delle spie cubane a Miami all’inizio degli anni ’90.

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