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I 5 migliori film di Peter Greenaway

Ospite d’eccezione alla 13ª edizione del Biografilm Festival | International Celebration of Lives di Bologna (9-19 giugno 2017), Peter Greenaway, pittore, regista e sceneggiatore gallese classe 1942, è uno dei più influenti autori contemporanei, in grado di far evolvere il linguaggio cinematografico attraverso una ricerca stilistica non esente da sperimentalismi e una profonda coerenza tematica influenzata dai suoi studi di Storia dell’arte. Ecco, allora, i suoi cinque migliori film!

5° Il bambino di Mâcon (1993)


In un’atmosfera tetra (dominata dal nero, dal rosso e dall’oro) che tende alla solennità liturgica, Greenaway rivisita con personalità il teatro filmato, allargando il concetto di inquadratura per il cinema attraverso l’idea di uno “spazio coreografico” che cerca di esaltare la profondità dell’immagine senza sperimentalismi in post-produzione. Il sesso, indissolubilmente legato alla morte, diventa qui anche strumento di dissacrazione religiosa (nel contrapporsi alla verginità) e manifestazione di ambizione, avidità, sfruttamento e brama di potere in seguito alla procreazione.

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4° I misteri del giardino di Compton House (1982)


L’opera che portò all’attenzione della critica internazionale il talento di Greenaway e una delle sue pellicole più omogenee, in grado di unire indagine teorica (verità dell’arte, dominazione di classe, intelletto, desiderio carnale e morte) e splendore figurativo, frutto degli studi pittorici del regista gallese (suggestioni fiamminghe, nature morte, luce naturale, manierismo). Eccellente esempio di cinema per il cinema, in cui l’immobilità della macchina da presa rende ogni fotogramma un quadro su pellicola.

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3° Lo zoo di Venere (1985)


Attraverso un linguaggio che destruttura i codici del cinema classico, a partire dalla totale assenza di empatia per i personaggi, il rifiuto dello storytelling e l’annullamento del ruolo dell’attore, il terzo lungometraggio di Peter Greenaway diventa un’opera d’arte concettuale, affastellata di simboli, rimandi mitologici e pittorici (Vermeer, i gelidi ritratti dei corpi nudi, le nature morte) e richiami all’organizzazione dello spazio in termini di idee matematiche. Cerebrale, affascinante, scientifico, funereo, asettico, sperimentale.

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2° Il ventre dell’architetto (1987)


Nel quarto lungometraggio di Peter Greenaway, nascita, creazione artistica e morte si ripetono ciclicamente, in un processo di imitazione fuori dal tempo. Un’opera sulla perfezione della forma (cupole, archi, colonne, statue), sulla geometria dell’architettura, sulla prospettiva, sull’armonia delle linee che dipingono il paesaggio, ma anche sulla malattia, il possesso, l’umiliazione, l’autodistruzione. La straordinaria fusione tra immagini e musica dà vita a una pellicola che è come un palco a teatro, e Roma è lo spettacolo.

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1° Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989)


Una delle opere più armoniose, limpide e cristalline di Peter Greenaway, ammirevole per densità di significati simbolici (potere, sopraffazione, violenza, volgarità) e per ricercato impianto visivo. Un allegorico “teatro del sangue” in cui oltre al sesso e alla morte, costanti nella poetica del regista gallese, si aggiunge qui la presenza del cibo come supremo, mostruoso, surplus consumistico di una classe borghese che si nutre di se stessa in uno scenario da girone infernale. Straordinario lo studio formale, in cui cromatismi e interazioni dei piani spaziali all’interno dell’inquadratura tendono allo splendore plastico-figurativo della pittura fiamminga e barocca.

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