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I 5 migliori film di Powell & Pressburger

Protagonisti di una imperdibile retrospettiva al prossimo Torino Film Festival (23 novembre – 1 dicembre), Michael Powell ed Emeric Pressburger diedero vita, per circa quindici anni, a uno dei sodalizi artistici più straordinari di sempre, capace di diventare un autentico modello di riferimento per decine di autori contemporanei e un imprescindibile oggetto di studio per tutti i critici e gli storici che si occupano della Settima arte.

Powell, inglese, e Pressburger, ungherese, incentrarono la loro poetica cinematografica attorno all’idea di realizzare un cinema “totale”, capace di abbracciare tutte le arti nelle loro forme più nobili e di portare sullo schermo un distillato di magia, artificio ed emozione assolutamente unico e inimitabile. Era il 1943 quando i due registi e sceneggiatori fondarono la storica casa di produzione The Archers e si vide per la prima volta sul grande schermo la leggendaria dicitura “Scritto, prodotto e diretto da Michael Powell e Emeric Pressburger“.

Ecco, dunque, i 5 (+1, perché c’è un’aggiuntina finale…) migliori film di Powell & Pressburger!

5) Narciso nero (1947)

Basandosi sull’omonimo romanzo (1939) di Rumer Godden, Powell e Pressburger hanno scritto, prodotto e diretto uno dei più provocanti, audaci e deliranti melodrammi dell’epoca, divenuto un titolo di culto per molti autori contemporanei. Mistura ipnotica dal fascino sinistro di tensione erotica, spiritualità e tentazioni della carne, Narciso nero rappresenta il paradigma imprescindibile della visione di cinema dei due registi (resa definitiva nel successivo Scarpette rosse, 1948): raffinatezza della scrittura, controllo assoluto della messa in scena ingabbiata in set maniacalmente ricostruiti, squarci nell’interiorità di personaggi dalle connotazioni estreme, importanza della dimensione figurativa. Un’esperienza estatica, dove l’ambientazione esotica, con il suo carico di inebriante sensualità, assume una valenza espressiva di importanza capitale. Puro artificio cinematografico, al servizio di una storia all’insegna dell’eccesso, che è anche una metafora dei fallimenti dell’impero britannico. Straordinari il Technicolor di Jack Cardiff e le scenografie di Alfred Junge, giustamente premiati con l’Oscar.

4) Scala al paradiso (1946)

Trionfo di visionaria immaginazione e precisa puntualità di scrittura, il film è un classico della commedia fantastica che gioca con il sottile confine tra realtà e immaginazione, incastonando nella vicenda una sana dose di ottimismo e buoni sentimenti alla ricerca dell’amore e della fatidica “seconda scelta” nella vita. Una esperienza visiva giocata su un costante clima di sospensione che eleva lo spirito irrealistico e onirico di Powell e Pressburger a stato dell’arte. Un perfetto mix di giocoso surrealismo, raffinata ironia e puro romanticismo, straordinario per l’ammirevole equilibrio tra le parti. Strabiliante per virtuosismi estetici, la pellicola segna un punto fermo nell’uso del colore sul grande schermo, con il mondo terreno filmato in uno sgargiante Technicolor e l’aldilà reso in un etereo bianco e nero. Un distillato di magia cinematografica degno di Méliès, nonché un titolo di culto per Coppola, Scorsese e De Palma, la cui grandezza è stata definitivamente riconosciuta a partire dagli anni ’70.

3) Duello a Berlino (1943)

Prima opera nata dalla storica casa di produzione The Archers della coppia Powell-Pressburger e uno dei loro lavori migliori. Girata in piena Seconda guerra mondiale, con l’Inghilterra devastata dai bombardamenti tedeschi, una pellicola di importanza capitale nella filmografia dei suoi autori e, più in generale, nella storia del cinema: in miracoloso equilibrio tra impegno e leggerezza di tono, è un fluviale dramma in cadenze di commedia british che ritrae una delle amicizie più belle e significative che siano mai apparsa sullo schermo. L’onore e il rispetto per l’avversario diventano un canto poetico e struggente sull’abbattimento di qualsiasi barriera di odio, attraverso il malinconico ritratto di un mondo in continuo cambiamento che rischia di veder svanire i valori più autentici. Il vecchio, con il suo carico ideologico “umano”, rimpiazzato da un nuovo all’insegna dell’omologazione e del pregiudizio. E il conflitto bellico, specchio di una umanità sempre più accecata dall’egoismo, non può che adeguarsi tristemente ai tempi che cambiano. Straordinario per costruzione narrativa (con un uso del flashback di rara modernità), direzione degli attori e invenzioni visive, un film baciato dalla grazia che scava nel profondo dei personaggi, tra pudica satira antimilitarista e struggente storia d’amore.

2) I racconti di Hoffmann (1951)

Una sfavillante summa della visione cinematografica di Michael Powell ed Emeric Pressburger che, trasponendo non senza qualche libertà l’omonima opera fantastica in cinque atti (1880) di Jacques Offenbach su libretto di Jules Barbier, hanno dato vita a un ineguagliabile spettacolo totalmente aderente alla partitura originale. Interamente cantata, la pellicola è una esaltazione della rappresentazione filmica come artificio, sintesi suprema di tutte le arti e le tecniche espressive che concorrono alla creazione di un mondo immaginifico al di là di qualsiasi realtà percepita. Un trittico musicale, incorniciato da un prologo e un epilogo, che racchiude pittura (il folgorante uso del colore), teatro (le sfarzose scenografie ricostruite negli Shepperton Studios) e melodramma. Delusioni d’amore, tentazioni del male, purezza del bene, sacrifici in nome dell’Arte, romanticismo, fantasia, inganni e false apparenze attraversano tre racconti giocati su variazioni cromatiche differenti (la Parigi di Olympia’s Tale in giallo, la Venezia di Giulietta’s Tale in rosso cupo e l’isola greca di Antonia’s Tale in azzurro) che mettono in scena tutte le ossessioni di Powell e Pressburger e i temi a loro cari, in una barocca ricostruzione antinaturalistica giocata sul virtuosismo della regia e delle interpretazioni.

1) Scarpette rosse (1948)

Uno dei più celebri lavori realizzati dalla casa di produzione The Archers di Powell e Pressburger, che hanno scritto, prodotto e diretto un autentico manifesto del melodramma classico, ispirato alla fiaba Le scarpette rosse (1845) dello scrittore danese Hans Christian Andersen. Il canovaccio tradizionale, di facile presa “popolare”, è trasfigurato dallo stile visionario dei due autori, che riescono a rendere unica una storia d’amore maledetta giocata sui toni accesi della messa in scena e le caratterizzazioni fiammeggianti dei personaggi. Il clima febbrile, in cui convivono siparietti romantici e squarci di lancinante tensione emotiva, è orchestrato magicamente dai due registi, che dimostrano in ogni fotogramma un controllo totale sul mezzo cinematografico. Straordinaria la discesa agli inferi di Victoria che, sovrapponendosi al personaggio che interpreta sul palcoscenico, vive un inquietante processo di identificazione al limite della follia che la porta a sacrificare tutto in nome dell’arte. Walbrook, maschera sola e tragica, è eccezionale ma i riflettori sono tutti per l’esordiente Moira Shearer, impegnata nel ruolo della vita. Due Oscar: miglior scenografia (Hein Heckroth e Arthur Lawson) e miglior colonna sonora (Brian Easdale). L’avrebbe meritato anche la fotografia in Technicolor di Jack Cardiff.

Menzione speciale per L’occhio che uccide (uno dei nostri 101 capolavori a 4 stelle), perché diretto solo da Michael Powell

Capolavoro imprescindibile e titolo di culto assoluto, L’occhio che uccide (il titolo originale, Peeping Tom, in gergo significa “guardone”) rimane uno dei lungometraggi più controversi e deviati della storia del cinema, che all’uscita fece gridare allo scandalo non solo per i contenuti di inusitata morbosità, ma anche perché dietro la macchina da presa (qui strumento di morte e prolungamento fisico delle pulsioni violente e sessuali dell’uomo) c’è il distinto e “insospettabile” Michael Powell, maestro del cinema britannico che ha segnato la settima arte insieme al sodale Emeric Pressburger. E rimane incredibile come il regista inglese abbia ucciso il cinema dell’epoca (e non solo) proiettando tutto se stesso all’interno del film, ritagliandosi addirittura la piccolissima (e sfocata) parte del padre aguzzino di Mark. Saggio metafilmico che unisce voyeurismo, riflessione sul cinema, trattato sui traumi infantili, necrofilia, indagine del subconscio, repressione, morbosità del desiderio carnale e, soprattutto, una sconvolgente provocazione allo spettatore, costretto a veder emergere le proprie perversioni in un disturbante processo di identificazione con il protagonista. Powell rimarca ancora una volta la sua ossessione per la rappresentazione e l’artificio, sottolineando come la vicenda viva in un metaforico palcoscenico dai colori irreali e dall’atmosfera opprimente. Un’opera capitale respinta, non incompresa, troppo coraggiosa per poter ottenere consensi da un pubblico con ancora negli occhi i mélo anni ’50 e da una critica bigotta e ben poco propensa a esporsi sui temi trattati della pellicola. Ancora più radicale del coevo Psyco (1960) di Alfred Hitchcock, altro epocale esempio di cinema puro che però ha goduto fin dall’uscita di ben altra accoglienza.

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