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Bergamo Film Meeting 2018, i ribelli del '68: la nuova onda del cinema cecoslovacco

BERGAMO FILM MEETING
International Film Festival

36a edizione, 10 – 18 marzo 2018
I RIBELLI DEL’68 LA NUOVA ONDA DEL CINEMA CECOSLOVACCO

La 36a edizione di Bergamo Film Meeting, in programma dal 10 al 18 marzo 2018, dedica un
focus alla Nová Vlna, in occasione delle celebrazioni dei 50 anni della Primavera di Praga del
1968.
7 titoli realizzati tra il 1965 e il 1970, che portano la firma di autori come Jiří Menzel, Jaromil
Jireš, Juraj Herz, Ján Kádár e Elmar Klos, tra i più significativi rappresentanti di una corrente
cinematografica in contrasto con la politica di regime e desiderosa di vivere quel soffio di
libertà che all’epoca attraversò tutte le forme di pensiero.

La retrospettiva fa parte di un progetto dedicato ai 50 anni della cinematografica ceca e
cecoslovacca e sarà ospitata nei prossimi mesi anche in altre città italiane: Verona, Roma,
Bologna e Venezia.

I FILM
Obchod na korze (Il negozio al corso) di Ján Kádár, Elmar Klos, 1965, 128′
Dáma na kolejích (La signora dei binari) di Ladislav Rychman, 1966, 83′
Ostre sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati) di Jiří Menzel, 1966, 93′
Spalovač mrtvol (L’uomo che bruciava i cadaveri) di Juraj Herz, 1968, 95′
Žert (Lo scherzo) di Jaromil Jires, 1969, 80′
Ucho (L’orecchio) di Karel Kachyna, 1970, 94′
Valerie a týden divů (Fantasie di una tredicenne) di Jaromil Jireš, 1970, 77′
Evento speciale: Uzel na kapesníku (The Knot in the Handkerchief) di Milos Komárek, Josef Pinkava, Hermína
Týrlová, 1958, 15′

LA NOVÁ VLNA
«Risulta difficile parlare della Nová Vlna come di un movimento omogeneo, men che meno di progettualità
comuni. I registi sono amici formatisi nei teatrini d’avanguardia e nei jazz-club, lavorano scambiandosi idee
ed esperienze, ma ciascuno è gelosissimo della propria individualità. Uniti dall’etica, divisi dall’estetica, si
diceva dei protagonisti del neorealismo. Qui a unire è la politica, a dividere il modo di intendere il “nuovo”.
Formatisi sui classici del neorealismo, su Fellini e Antonioni, attentissimi alle esperienze della nouvelle vague, in rapporto di continuo interscambio con i loro coetanei polacchi e ungheresi e, in occidente, con quelli del
free cinema, questi bright young men and women, come li definisce Skvorecky, lasciano la loro firma
indelebile sul periodo. C’è ancora la censura, d’accordo, ma è possibile aggirarla; anzi, essere in parte
costretti nei suoi lacci stimola la fantasia, offrendo la valvola di sfogo della metafora».

IL CONTESTO STORICO
«Il contesto in cui nasce e si sviluppa la nouvelle vague praghese vede un Paese, la Cecoslovacchia, la cui
economia è collassata sotto la pressione del modello socialista. La conseguente crisi politica mina la
credibilità dell’establishment, in difficoltà anche per i ritardi nella riabilitazione delle vittime delle purghe
staliniane, che diventa oggetto di scontro all’interno del Partito. In questo panorama in lenta ma costante
evoluzione, con la perdita di autorevolezza di quel soffocante apparato che è il Partito, trae vantaggio il
mondo culturale. C’è, di conseguenza, un soffio di libertà che comincia ad attraversare tutte le espressioni
del pensiero. Il teatro, la musica e le arti figurative possono finalmente cercare di sottrarsi ai dettami imposti
dal regime».
«In campo cinematografico si viene a determinare una situazione anomala, per cui la FAMU, la scuola che ha
formato intere generazioni di artisti, viene a caratterizzarsi come una sorta di zona franca per la
sperimentazione. La Facoltà di cinema e televisione dell’Accademia delle arti diventa un fertile laboratorio di
idee, luogo di formazione per tutti gli aspiranti cineasti, che possono, fra l’altro, avere accesso ai film
stranieri grazie alla collaborazione con l’Archivio Nazionale del Cinema».
«Così, recuperando alcuni temi neorealisti, con un occhio alle vagues europee di qua e di là dalla cosiddetta
cortina di ferro, nell’ambigua frequentazione di un finto cinéma vérité, la Nová Vlna parla le sue cento lingue,
dall’osservazione fenomenologica alla metafora, dal “tragico quotidiano” alla fiaba filosofica, lontana dagli
sperimentalismi ma nella pratica di un’inusitata libertà di forme. Senza peraltro rinunciare, pur
nell’entusiasmo della costruzione del nuovo, a quelli che sembrano essere i dati costitutivi della cultura
nazionale: la misura, i mezzi toni, il sorriso malinconico capace di improvvise impennate sarcastiche».

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