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Bernando Bertolucci alla Festa di Roma : "Al cinema sono un voyeur senza freni"

Bernardo Bertolucci ha letteralmente sedotto la Festa del Cinema di Roma con una masterclass densissima, nella quale il regista parmense non si è risparmiato a nessun livello, deliziando il pubblico presente con una carrellata fluviale e abbagliante di aneddoti, considerazioni sul cinema di ieri e di oggi e panoramiche sulla sua stessa carriera. Bertolucci si è mostrato generoso, oltre che lucido e al massimo delle forze mentali: un vero spettacolo, sia detto senza mezzi termini, assistere a un maestro disposto ad appassionare una sala gremita in maniera così irresistibile, tra rivelazioni inedite e spesso divertenti e riflessioni profonde e illuminanti, anche a costo di partorire digressioni infinite. Non potrebbe poi essere più sincero, il regista di Ultimo Tango a Parigi e Novecento, che si è presentato all’incontro con alcuni fogli pieni di appunti, quando rivela che all’epoca avrebbe davvero picchiato chiunque non apprezzasse Godard, tanto era il suo “amore aggressivo” per il regista francese.

Bernardo Bertolucci, come si pone rispetto ai suoi esordi?

A un certo punto, dopo aver esordito con La commare secca, avevo fatto Partner, che era un film folle, poi nell’estate del ’69, che fu un estate in stato di grazia, feci La strategia del ragno, che non a caso fu un film realizzato con molta grazia. Poi arrivò la luce verde per Il conformista.

Cosa ricorda di quel film, adattamento di un celebre romanzo di Alberto Moravia? E soprattutto, perché il film finisce in maniera diversa rispetto al romanzo? 

Nel romanzo di Moravia il protagonista viene ucciso, è vero. Ma per me si trattava di un finale inaccettabile: il personaggio di Trintignant scappa da Roma con i bambini e la moglie interpretata da Stefania Sandrelli, ma la famiglia viene intercettata e le conseguenze sono letali. Mi pareva una cosa che arriva dall’alto, troppo simbolica. Ho preferito finire, invece, con un primo piano di Trintignant che improvvisamente capisce, forse, qual è stata la sua storia, la sua vita. E’ un personaggio molto complesso, si tratta di un conformista che siccome si sente diverso da tutti gli altri decide essere come tutti, negli anni ’30 del fascismo, lavorando come spia del regime. La mia punizione è questo primo piano.

Perché ha scelto di mostrarci proprio la scena in cui il Marcello di Trintignant torna a casa? 

Perché è una scena intrisa di voyeurismo. Il personaggio di Dominique Sanda forse ha visto Marcello o forse no, non lo sappiamo. Tutti i registi che mi assomigliano, personalmente, sono dei voyeur, lo dico senza alcun tipo di giudizio o di condanna sul voyeurismo in quanto tale. Anche la macchina presa dal canto suo fa del voyeurismo. In quegli anni, alle prese con le analisi freudiane, non potevo non pensare che l’occhio della macchina da presa facesse anch’esso del voyeurismo, che fosse come il buco della serratura. Gli psicanalisti parlano di scena primaria: tutti i bambini hanno visto o immaginato i genitori che fanno l’amore, dopotutto è un sistema di pensiero anche il voyeurismo. Io nella vita sono meno voyeur, ma nel cinema lo divento senza frena.

A quali registi allude in particolare?

Mizoguchi, Ophüls, Stanley Donen. Nei loro film, a differenza che nel rigoroso Bresson, ad esempio, la macchina da presa si muove molto, non ci sono praticamente piani fissi. Anche io avverto questa sindrome, non riesco a stare con la macchina da presa ferma, che siano anche solo dei piccoli movimenti di aggiustamento. A volte penso che se i miei attori non avessero mai potuto vedermi come voyeur avrei funzionato di più.

Robert Bresson lo ha conosciuto personalmente. Cosa ricorda di lui? 

Andai a cena con lui una sera, quando era a Roma per girare il primo episodio di una serie sulla Bibbia, L’arca di Noé. A tal proposito ho un racconto divertente: il produttore era Dino De Laurentiis che nella sua piccola Dinocittà, sulla Pontina, aveva dei camion con dei vagoni pieni di animali sempre a coppie: due giraffe, due zebre, mai un animale da solo. De Laurentiis chiamò Bresson nel suo ufficio e gli disse: “Maestro, che bello, sono riuscito a far fare un film spettacolare a lei, che è il regista più ascetico e minimalista  che ci sia”. Probabilmente De Laurentiis non sapeva il termine minimalista, ma disse qualcosa del genere. Bresson rispose che nel film degli animali si sarebbero viste solo le orme, e Dino lo cacciò all’istante. Io lo incontrai a cena quella sera stessa!

A un certo punto nella sua carriera arriva l’uragano Ultimo Tango a Parigi

Un piccolo produttore di New York mi disse: voglio produrti un film, dammi una storia. Io scrissi una paginetta su un uomo e una donna che si incontravano in una casa vuota, né di lui né di lei, solo per fare l’amore. Non sanno il nome l’uno dell’altro e non lo vogliono sapere affatto, è un modo per sfuggire alla loro identità sociale. Tentai con la Paramount ma mi dissero che Brando voleva troppi soldi, tra l’altro avevano Il padrino in moviola e neanche lo sapevano, perché i produttori, di base, non sanno niente. Alla fine lo fece Grimaldi, produttore di Leone e Pasolini, dopo che la United Artists mi disse che andava bene solo se ce l’avessi fatta con un milione di dollari. Io volevo Belmondo o Delon in origine: il primo mi cacciò da casa sua dicendomi che era un film osceno e io  ci rimasi molto male, Delon voleva esserne il produttore a tutti i costi e quindi non se ne fece nulla. Brando lo incontrai all’Hotel Raphael a Parigi, era molto stanco per via del viaggio da Los Angeles, gli raccontai la storia in due minuti in un inglese pessimo ma lui non mi guardava negli occhi. Quando gli chiesi il perché, mi disse: “Perché voglio vedere quando la smetti di battere continuamente il piede”. Ero nervosissimo. E dopo feci anche di peggio, ma ve lo risparmio!

Come lavorò sul personaggio con Brando?

Gli chiesi di pensare ai ritratti di Francis Bacon, così disperati e spietati. Gli dissi: voglio che i tuoi primi piani abbiano questa feroce immediatezza, questa identica forza. Lui non sapeva neanche chi fosse Francis Bacon ma rimase molto impressionato dal suo lavoro e mi pare che nel film abbia raggiunto il risultato egregiamente. Ha dato corpo a un personaggio che letteralmente non esisteva, sulla pagina, visto che la sceneggiatura era poco più di un bozzetto. Era un gigante, oltre che l’uomo più bello del mondo. Su questo non ci sono dubbi. Non è mai più nato qualcuno come lui e credo che a questo punto non nascerà più.

Passiamo a L’ultimo imperatore. Come mai un regista di Parma a raccontare la storia dell’ultimo imperatore cinese?

Avevo letto il libro Da imperatore a cittadino, l’autobiografia di Pu Yi. E poi il giallo di Parma è uguale uguale a quello imperiale cinese. Era una Cina molto diversa, precedente ancora a quell’apertura che avremmo trovato girando poi effettivamente il film due anni dopo. C’erano quelle divise in giro che mettono nei film americani quando vogliono far vedere la Cina di Mao. Una volta finii in una sala in cui tagliavano i capelli tutti insieme a dei soldati, una scena che mi evocò delle sensazioni tremende, sono scappato subito perché rimasi quasi impressionato.

Arriviamo a Novecento.

Un film che ha avuto una vita complessa. Sempre la solita Paramount, da un film che durava 5 ore e 10, mi chiese di tagliare a tre ore, che era un bel dislivello. Lo montarono loro a un certo punto, quella versione da tre ore io non l’ho mai vista. Non ho mai amato queste versioni, ne esiste anche una di 4 ore. Lo fecero uscire in trenta cinema americani, senza pubblicità, di fatto lo condannarono a morte e lo affogarono come un gattino. Forse sono io che sono stato debole all’epoca, al cospetto di certe violenze. Feci quel film perché volevo tornare nella terra di mio padre Attilio, che mi ha insegnato tutto: la poesia, perché era un grande poeta, e il cinema, al quale mi portava di continuo perché fu critico cinematografico della Gazzetta di Parma tra il ’47 e il ’50.

Qual è il primo film che ha visto?

Ovviamente Biancaneve. Il film più terrificante, più sadico per ogni bambino.

Che ricordo privato ha di suo padre?

Era un grandissimo ipocondriaco. Chiamava i medici alle tre di notte e riusciva anche a farli venire. E’ stato una scuola di ipocondria non indifferente, oltre che di vita. Mi sono liberato dalla continua ossessione per il corpo quando mio padre è morto. Dovevo fare Novecento anche per lui, che in un bellissimo poema aveva parlato di quel mondo, di una campagna parmense del primo novecento con mucche piene di latte in delle stalle, senza che nessun bracciante possa mungerle.

Ha accennato all’inizio al suo amore per Jean-Luc Godard.

Avevo un innamoramento sfrenato per lui e per il suo cinema, se avesse avuto dei bambini li avrei accompagnati a scuola per fargli piacere. Ci fu un periodo della nostra vita in cui ci incontravamo sempre, a Roma, a Parigi, poi dopo il ’68 ci siamo allontanati, abbiamo avuto una discussione molto forte. Lui si avvicinò al maoismo, com’è noto, io rimasi un tetragono comunista. Però lo invitai alla presentazione a Parigi de Il conformista, quella sera c’erano dei bellissimi ragazzi francesi, eleganti, con tanti cappotti Burberry, un’atmosfera splendida. Mi ricordo che Jean-Luc arrivò, un po’ bagnato di pioggia, con una sigaretta papier mais accesa in bocca. Alla fine mi diede un pezzo di carta senza parlarmi e io mi aspettavo che ci fosse scritto “Il conformista è un merda”. Invece no. C’era un ritratto di Mao fatto con un pennarello rosso e sotto la scritta: “Bisogna lottare contro l’egoismo e l’individualismo”. Quanto sarebbe bello oggi possedere ancora quel disegno di Godard, invece io, sul momento, mi arrabbiai moltissimo e lo strappai.

Che rapporto ha con i movimenti di macchina, cifra stilistica ricorrente del suo cinema?

Io sono appartenuto a un cinema non ascetico e severo ma generoso, quello di Ophuls e Mizoguchi, che accoglievano parti di pubblico dentro il movimento. Il piacere di Ophuls, quando andai a vederlo, mi piacque così tanto che mi venne la febbre e dovetti uscire dalla sala. Oggi vanno di moda i piani fissi, anche nel giovane cinema italiano, rispetto al piano sequenza. Io trovo invece bellissimo che ci sia un’inquadratura che riesca a uscire dallo schermo e a metterci dentro di sé. Ai miei tempi era più complicato e c’era un limite di tempo, oggi invece col digitale si può fare un piano sequenza praticamente infinito.

Sarebbe bello concludere proprio parlando del digitale e delle nuove tecnologie. Come si rapporta Bernardo Bertolucci ai nuovi mezzi che il cinema offre?

Amo molto la tecnologia, ho fatto anche dei provini in digitale. Però portandoli a casa e vedendoli sulla tv di casa mi sembrava tutto troppo definitivo, non c’era quel quid di indefinitezza, quel fuori fuoco tipico che è fisiologico e imprescindibile dell’immagine in pellicola, quella sua intrinseca dimensione misteriosa. Il digitale è troppo assertivo, manca quella dose di indeterminatezza. Per cui alla fine Io e te lo girai in pellicola, ma magari avrò tempo in futuro di cimentarmi col digitale. Tanto c’è tanto tempo, tutti abbiamo molto tempo e faremo tutto. Concordo con David Lynch, però, sul fatto che il digitale in molti casi non va bene perché l’immagine si vede troppo bene. La pittura impressionista sarà sempre la pellicola, il digitale è come bruciare tutto l’impressionismo con l’altissima definizione. Però chi lo sa: magari, col passare degli anni, il digitale sarà così avanzato da riuscire a guardare anche dentro ai personaggi…

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