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Black Mirror: la recensione della 5 stagione

La quinta stagione di Black Mirror ha debuttato oggi su Netflix dopo la parentesi Bandersnatch, esperimento interattivo che permetteva allo spettatore di decidere le sorti dell’episodio tramite scelte effettuate durante la visione. Un tentativo che portava con sé dei difetti, è vero, ma che comunque testimoniava come l’anima originaria della serie fosse ancora viva, ossia quel desiderio di applicare la tecnologia alla realtà quotidiana in un’ottica distopica, tanto che alcuni episodi potrebbero essere collegati ai racconti di Ray Bradbury. L’assenza di quest’anima è, quindi, il difetto maggiore dell’ultima serie, composta da tre episodi della durata di un’ora ciascuno: Striking Vipers, Smithereens e Rachel, Jack and Ashley.


Il primo, Striking Vipers, parla di Danny (Anthony Mackie) e Karl (Yahya Abdul Mateen II), due amici inseparabili con la passione per i videogame: Karl regala a Danny l’ultima versione di Striking Vipers, con la quale poter prendere parte direttamente al gioco tramite un sensore da applicare sulla tempia che permette di elevare il concetto di VR. Ecco la tecnologia, presto fatto il collegamento etico, ossia la questione riguardante il rapporto tra realtà virtuale e digitale, tra avatar e identità propria. Matrix docet. Ma in questo caso il piano su cui si gioca passa presto dalle pulsioni di violenza a quelle di attrazione fisica, mettendo in gioco i desideri latenti dei due protagonisti e delle verità che non possono emergere nella loro quotidianità dalla quale, per motivi differenti, cercano di fuggire. Niente di particolarmente innovativo, comunque, anche se qualche spunto efficace viene regalato: il fatto che la realtà virtuale possa permettere di liberare l’utente lasciandolo libero di sfogare ogni istinto non rientra certo nell’innovazione cui Black Mirror ci ha abituati, almeno nelle prime stagioni.


Con Smithereens invece, si entra direttamente nel campo del thriller, tralasciando quasi completamente l’aspetto tecnologico, cui viene riservato un ruolo marginale. Ecco la trama: Chris (Andrew Scott) è un autista di car sharing che un giorno prende in ostaggio un dipendente dell’azienda Smithereens, interpretato da Damson Idris, chiedendo come riscatto di poter parlare con Billy Bauer (Topher Grace), il capo dell’azienda. Una trama abbastanza banale, che affonda le sue radici in un trauma vissuto dal rapitore in passato, una ferita che viene rivelata gradualmente e che solo nel finale riesce a risollevare un episodio sicuramente ben girato e appassionante, ma altro rispetto a quel che Black Mirror dovrebbe essere. Vengono offerte riflessioni sull’utilizzo dei social network (la stessa Smithereens lo è) e su quanto l’uomo ne sia schiavo: un pensiero che passa attraverso inquadrature di gente comune a testa bassa con in mano telefoni, ma anche dalla facilità con cui è possibile reperire informazioni in tempo reale su quanto stia accadendo ai protagonisti, attraverso le condivisioni dei presenti. Anche in questo caso si tratta dunque di un argomento già ampiamente trattato e che non regala nulla allo spettatore se non un’ora di intrattenimento comunque di buona qualità, con un finale perfetto.


L’ultimo episodio, Rachel, Jack and Ashley, è incentrato sulla giovane Rachel (Angourie Rice) e sua sorella Jack (Madison Davenport). Rachel riceve in regalo Ashley Too, una bambola che riproduce la personalità della pop star Ashley O (Miley Cyrus) infondendo messaggi incoraggianti come fa nelle sue canzoni. Peccato che la realtà che vive Ashley sia ben diversa. Anche in questo caso, dunque, non si brilla per originalità tematica, anche se ci si trova di fronte all’episodio probabilmente più vicino all’atmosfera di Black Mirror, soprattutto nella seconda parte, dove l’elemento tecnologico assume caratteristiche stranianti e inquietanti, stimolando conseguenti riflessioni. Le figure femminili forti e la fragilità adolescenziale si contrappongono in un episodio non certo indimenticabile, ma che sicuramente dona qualcosa in più rispetto ai precedenti.


A conti fatti, dunque, non si può definire esaltante la stagione di Black Mirror, dove si sente forte la mancanza di quel senso di inquietudine crescente che lasciavano i primi (e migliori) episodi, radicati fortemente nel reale ma con un occhio verso un futuro tecnologico verso cui prestare attenzione. Erano visionari, crudeli, gelidi: questo manca, e non è un elemento di poco conto.


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