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Capitolo uno, 2: il cinema di Quentin Tarantino

Ve lo dico io di cosa parla Like a Virgin….

E su uno schermo nero, con questa battuta pronunciata da lui stesso (che poi scopriremo non essere voice over ma uno dei protagonisti), 25 anni fa Quentin Tarantino si è presentato al mondo del cinema con Le Iene (in originale Reservoir Dogs, titolo che pare ebbe origine come citazione di Louis Malle, Au Revoir Les Enfants, che Tarantino non riusciva a pronunciare correttamente), provocando un vero e proprio scossone nella settima arte. Una sequenza, quella iniziale, che riassume quasi in toto quello che sarà la poetica dell’autore postmoderno Quentin: ci sono i gangster, che però parlano di argomenti comuni, come fossero persone normali, dialoghi fitti e coinvolgenti nella loro naturalezza, una macchina da presa che simbolicamente ruota attorno ai protagonisti, la citazione e il riferimento alla cultura pop, con la canzone di Madonna presa come spunto per iniziare il discorso a colazione, per poi passare alla questione delle mance alle cameriere. L’enormità del cinema di Quentin Tarantino sintetizzata in una sequenza, seguita da titoli di testa in cui, sulle note di Little Green Bag, al ralenti, si vedono tutti i volti dei protagonisti mentre in sovrimpressione appaiono i loro nomi: Harvey Keitel, Michael Madsen, Chris Penn, Steve Buscemi, Lawrence Tierney, Eddie Bunker, Tarantino and Tim Roth are Reservoir Dogs. E mentre ancora scorrono i titoli, la voce di Roth sofferente introduce alla sequenza successiva, dove l’attore è imbrattato di sangue, agonizzante, sul retro di una macchina: la violenza, altro elemento chiave del cinema di Tarantino, come del resto il montaggio che non segue un ordine cronologico, cosa di cui ci si rende conto passando alla sequenza successiva. Nella prima mezz’ora Tarantino ha inviato al cinema il suo biglietto da visita. Un film su una rapina in cui la rapina nemmeno si vede: al Sundance Film Festival ne sono entusiasti, la critica resta colpita. Ma non sanno che è solo l’inizio.

Capitolo uno: 2

Uno degli elementi del postmoderno consiste nella divisione in capitoli, spesso raccontati grazie al montaggio che non segue l’ordine cronologico degli eventi, mostrandoli invece in ordine sparso, lasciando allo spettatore il compito di riunire i pezzi del puzzle dopo che poco a poco sono stati svelati. Dopo l’esordio con Le Iene, accade di nuovo con Pulp Fiction e con Kill Bill, capolavoro diviso addirittura in due capitoli per l’eccessiva lunghezza e per esigenze di distribuzione, anche se in questo caso è interessante come la stessa sceneggiatura abbia dato vita a due film stilisticamente così differenti: più orientale il primo, decisamente occidentale – per non dire quasi western, omaggiando il mito di sempre, Sergio Leone – il secondo, anche se sarebbe corretto considerarli come un’opera unica. Come un unico, vero capolavoro. Che ha origine proprio durante Pulp Fiction, quando Mia Wallace (Uma Thurman) racconta a Vincent Vega (John Travolta) l’episodio pilota della serie di cui era protagonista e la cui trama ricalca le avventure probabilmente vissute da Beatrix in Kill Bill prima del tragico evento del matrimonio.

Volevo però mostrare la quotidiana banalità della violenza, che quel filone ignorava.

Tarantino sta parlando di Pulp Fiction (1994) e del filone criminale, o del noir. Ma è qualcosa che può essere adattato a tutto il suo cinema, visto che è nel quotidiano che avvengono tutti (o quasi) i fatti che racconta, ma anche se ciò non accade, il regista riesce a calare lo spettatore nella vicenda alla perfezione, senza mai elevare i suoi personaggi a livello di icone (benché, a conti fatti, finiscano per diventarlo) e raccontando la loro vita di tutti i giorni, pur paradossalmente trattandosi di criminali con cui riusciamo a entrare in empatia. Attraverso i dialoghi, per esempio: Jules (Samuel L. Jackson) e Vincent che parlano di sistema metrico decimale e delle piccole differenze che esistono tra il McDonald’s americano e quello di Amsterdam o di tecniche di massaggi ai piedi appena prima di “entrare nei personaggi” (‘Die Figur ist die Figur’ dirà Briget von Hammersmark in Bastardi senza gloria) non è certo la normalità cui si assiste se si pensa a un film in cui i “gangster fanno roba da gangster”. Per lo stesso motivo, in Kill Bill – Volume 2 Bill (David Carradine) può intrattenere Beatrix con una riflessione filosofica sulla maschera e su Superman mentre aspetta che il siero della verità faccia effetto su di lei e mentre tutti aspettiamo che il faccia a faccia tanto atteso possa arrivare al suo apice. E persino in Jackie Brown, considerato da molti il meno tarantiniano dei suoi film, la protagonista (Pam Grier) può iniziare una conversazione con Max (Robert Forster) sulla paura di invecchiare. Il culmine, probabilmente, arriva con Django Unchained, film che già dal titolo è un omaggio aperto al film di Sergio Corbucci, con tanto di Jamie Foxx che specifica a Franco Nero che “la D è muta”: la sequenza in cui il KKK si ritrova e inizia una diatriba sui sacchetti bianchi da cui non si vede nulla e mariti offesi perché le mogli hanno passato la giornata a cucirli è quasi inarrivabile. La sceneggiatura è infatti un elemento chiave nella costruzione dell’opera per Tarantino, che con i dialoghi riesce a incantare lo spettatore quasi come avviene per la sua ricerca estetica e fotografica, anch’essa fatta di dettagli, di elementi che potrebbero essere considerati secondari o inutili e che invece, ora sì, Tarantino eleva a oggetti che divengono di culto. Come da tradizione della cultura pop.

Bang Bang…

Mai casuale, la scelta delle colonne sonore nella filmografia di Tarantino è un valore aggiunto utile a impreziosire l’opera, un omaggio ulteriore alla cultura musicale, al cinema che diventa summa delle arti: Tarantino lo sa e lo esplicita. Partendo con Little Green Bag di George Baker (Le Iene), passando a Misirlou di Dick Dale & His Del-Tones per i titoli di testa di Pulp Fiction, mentre per la sequenza del ballo di Vincent e Mia è stata scelta You Never Can Tell di Chuck Berry, ma non va dimenticata Girl, You’ll be a Woman Soon di Urge Overkill che fa da atmosfera in un montaggio alternato tra Vincent che fa i conti con la sua lealtà e Mia che scambia tragicamente l’eroina per cocaina, rischiando l’overdose. E se Bang Bang di Nancy Sinatra risulta quantomai azzeccata per Kill Bill, il sogno musicale di Quentin Tarantino ha un nome e un cognome, che viene svelato in Kill Bill vol. 2: Ennio Morricone, del quale vengono suonate diverse tracce, tutte provenienti dalla Trilogia del Dollaro. Morricone comporrà l’intera colonna sonora di The Hateful Eight, per la quale vincerà un Oscar.

Give me a Leone

Si narra che questa era l’espressione utilizzata dal giovanissimo Tarantino per chiedere ai suoi operatori di realizzare dei primissimi piani, proprio come quelli à la Sergio Leone, vero mito e modello assoluto per il regista. E non è solo l’amore per il dettaglio a essere l’omaggio ricorrente ma anche il mexican standoff, che trova la sua origine proprio nel “triello” ammirato in Il buono, il brutto e il cattivo, ossia un duello con la pistola tra tre soggetti che si tengono reciprocamente puntata l’arma: Le Iene, Pulp Fiction e Bastardi Senza Gloria (in cui viene anche esplicitato il concetto) sono esempi efficaci per ammirare la maestria con cui Tarantino ha appreso la lezione dal suo maestro declinandola alla sua arte. A livello tecnico è tarantiniano il trunk shot, ossia la ripresa dal bagagliaio, o dal basso verso l’alto, presente in tutti i suoi film, o quasi, e che trova in Pulp Fiction e nel finale di Bastardi Senza Gloria le sue declinazioni migliori.

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