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Il cinema di Gianni Amelio: la nostra top 5

Col suo cinema sentito e personale, attento alle pieghe della Storia come ai ripiegamenti privati e sentimentali dei suoi personaggi, Gianni Amelio ha segnato in profondità gli ultimi tre decenni di cinema italiano: tale doppio binario gli ha infatti permesso di realizzare film importanti e ai quali è difficile rimanere indifferenti, specie per l’approccio pudico e misurato del regista, per il suo tatto e la sconfinata umanità delle sue storie.

A colpire (a cuore), del cinema di Gianni Amelio, è soprattutto la maniera di inoltrarsi nel dramma e nei mille risvolti del dolore, della memoria e del privato, rappresentati con gravità e profondità ma con un realismo non immune alla distensione del calore umano.

Ecco i suoi cinque film migliori secondo la redazione di LongTake.

5) Il primo uomo

Nel rielaborare il testo del premio Nobel, Gianni Amelio contamina l’autobiografia (sotto falso nome) di Camus con invenzioni ispirate (la scena dell’accalappiacani) e diversi aneddoti della propria infanzia. Confeziona così un film al contempo elegante e personale, che riprende ancora una volta il tema della paternità negata o assente, proiettandola nella Storia. La pellicola è al contempo una summa del suo stile narrativo: misura e controllo della recitazione, carrellate realizzate con la steadycam, campi e controcampi “televisivi” che si alternano a elaborate riprese lunghe.

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4) Colpire al cuore

Rodato dalla lunga serie di prodotti televisivi, Gianni Amelio approda finalmente sul grande schermo (ancora grazie alla Rai) e lo fa con indubbia efficacia, utilizzando il materiale “incandescente” dell’attualità: anni di piombo e brigatismo. Proprio per questo non mancarono polemiche all’epoca, anche se la pur accurata ambientazione contemporanea è comunque funzionale a raccontare il tema, caro all’autore, del confronto tra un adulto intellettuale e un giovane irriducibile al punto di vista del primo.

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3) Lamerica

Memorabile affresco dell’Albania (e di riflesso dell’Italia) di inizio anni Novanta, raccontata attraverso lo scontro di diverse sgradevolezze di due mondi divisi dagli episodi storici e da un lingua di mare. Proprio l’Adriatico diventa un miraggio universale man mano che si procede nel racconto: non solo la via di fuga per gli albanesi, ma un oceano che risveglia i ricordi di Michele e l’unica possibilità per Gino di evitare guai giudiziari. Il viaggio a ritroso di quest’ultimo, che non sviluppa nessuna empatia né con gli stranieri né con il compatriota, comunica con inedita efficacia la difficoltà a rapportarsi con una popolazione in parte plagiata dai peggiori cascami della (sotto)cultura italiana dell’epoca.

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2) Così ridevano

Ha vinto il Leone d’Oro della 55esima Mostra del Cinema di Venezia, questa coraggiosa pellicola, nella quale il regista sceglie il disincanto e la rassegnazione per raccontare il recente passato del Paese e indagare ancora una volta nei rapporti tra famigliari. Affida ancora a Lo Verso il ruolo di protagonista, un emigrato come tanti diviso tra le radici, il sogno di un riscatto sociale di cui vorrebbe si facesse carico il fratello e la necessità di “arrangiarsi” senza andare troppo per il sottile. Ma in questa Torino spesso notturna, solitaria e financo disumana, è il personaggio di Pietro a fare una scelta morale definitiva.

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1) Il ladro di bambini

Nella sua opera più riuscita in assoluto, insignita tra l’altro a Cannes con il Gran Premio della Giuria, Amelio torna a raccontare la storia (in questo caso contemporanea) fissando lo sguardo sui bambini come in molti lavori precedenti. Anziché limitarsi a narrare la privazione dell’infanzia, già avvenuta all’inizio del film, lascia intravedere un suo possibile e pure incompiuto recupero, affidato all’umanità di un ragazzo qualunque che presto si spoglia della divisa per indossare i panni di padre putativo. Se all’inizio si concede una sequenza di grande tecnica e ampio respiro (l’irruzione delle forze dell’ordine nel palazzo dove vivono i bambini), non teme poi di affidarsi soprattutto ai volti e a un’estetica “sporca” che serve alla perfezione lo sviluppo della sceneggiatura. Lo Stato (come il collega di Antonio) scompare subito dopo l’iniziale intervento e il viaggio da Milano al Lazio, alla Calabria e infine in Sicilia è una discesa in cui solitudine e libertà si alternano e mischiano, evitando miracolosamente la retorica grazie alla misura con cui sono diretti gli attori.

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