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Il cinema di Robert Bresson: la nostra top 5

Autore simbolo di un cinema minimalista nella forma ma ricchissimo ed emotivamente struggente nella sostanza, Robert Bresson ha saputo, in soli tredici lungometraggi, raccontare in maniera lucida, disincantata ed estremamente poetica le contraddittorietà dell’essere umano e la sua eterna lotta contro la sofferenza e la solitudine.

Attraverso l’essenzialità della messa in scena cinematografica, il cineasta transalpino ha dato vita a un personalissimo e riconoscibile stile, nonché a uno sguardo sul mondo capace di trascendere il visibile e rivelare l’intima natura degli individui attraverso la valorizzazione dei silenzi, dei non detti e dei dettagli forieri di un disagio esistenziale e al contempo di un candore che fatica a scalfirsi malgrado gli orrori, le difficoltà e le ingiustizie della quotidianità.

In occasione del restauro ad opera della Cineteca di Bologna e del ritorno in sala di due capolavori come Mouchette e Au hasard Balthazar, LongTake dedica a Bresson il suo appuntamento con la classifica della settimana, scegliendo i cinque film dell’autore francese più meritevoli, secondo il giudizio della nostra redazione.

Ecco a voi, dunque, la top 5 dedicata al cinema di Robert Bresson.

5) L’argent

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Ultima pellicola firmata da Bresson, una caustica e ficcante parabola sul potere divoratore e mefistofelico del denaro, visto come strumento di corruzione individuale e sociale capace di segnare una regressione bestiale nell’uomo. Opera spoglia nella messinscena, ma di esemplare stratificazione concettuale, che diventa culmine definitivo del processo di scarnificazione narrativa dell’autore francese; eccezionale nell’uso del sonoro, del fuori campo e nell’attribuzione di significato ai gesti e agli oggetti. Liberamente ispirato al racconto Denaro falso (conosciuto anche come La cedola falsa) di Lev Tolstòj. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes, ex-aequo con Andrej Tarkovskij per Nostalghia (1983).

4) Mouchette

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Tratto dal romanzo Nuova storia di Mouchette di George Bernanos, l’ottavo lungometraggio di Bresson rappresenta una disperata parabola esistenziale in cui l’adolescenza viene spogliata di ogni valenza positiva per diventare un cupo calvario in cui un imperscrutabile disegno (divino?) annienta l’innocenza di una ragazza condannata a soffrire.  Privo di enfasi, lo sguardo autoriale aderisce alla vicenda con compassione e profonda pietas per una protagonista straordinaria nel difendere il proprio orgoglio ferito. Ambientazione spoglia e scrittura registica minimale trasmettono, senza inutili orpelli, una vicenda di rara potenza emotiva che culmina nello struggente finale sulle note del Magnificat di Claudio Monteverdi.

3) Un condannato a morte è fuggito

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Uno dei più alti risultati del minimalismo cinematografico di Bresson che, sulla base del racconto autobiografico di André Devigny, tocca uno dei vertici della sua carriera artistica. Il programmatico rifiuto dell’enfasi recitativa (per la prima volta il regista lavora con attori non professionisti) e di ogni possibile risvolto spettacolare diventeranno direttrici fondamentali nel futuro. Solitudine, speranza, solidarietà, fiducia nel prossimo e lotta per la libertà (individuale e collettiva, negli anni bui della Seconda guerra mondiale) sono alla base di un racconto simbolico in cui alla profonda spiritualità della Grazia divina si affianca un sottotesto di denuncia derivante dalla drammatica esperienza di Bresson nella resistenza. Premio alla regia a Cannes.

2) Pickpocket

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Una parabola sul conseguimento della salvezza attraverso la sofferenza, privata di qualsiasi orpello formale o sovrastruttura verbale, che si prefigge di essere un esempio di cinema ridotto ai suoi elementi essenziali. Attraverso la voce fuori campo del protagonista e l’iperbolica attenzione sui gesti, il regista francese contrappone la figura di Michel, intellettuale non credente che vive in un cosciente distacco dalla realtà rifiutando il giudizio di Dio e seguendo una vocazione materiale che lo porta e un’esistenza ridotta a meccanici rituali, a quella di Jeanne, giovane angelicata sottomessa a un volere divino che sembra riservarle solo dolore. Un modello di profondità di sguardo e capacità di astrazione, in cui il pessimismo di Bresson è ancora velato di candida poesia.

1) Au hasard Balthazar

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Racconto di struggente intensità in grado di unire il severo rigore del minimalismo stilistico a uno sguardo di toccante umanità, che diventa testimonianza della cieca crudeltà dell’uomo e del carico di patimenti a cui si è sottoposti nella vita terrena. Figura santificata e simbolo cristologico, l’asino Balthazar si fa allegoria spirituale assoluta nella sua limpida autenticità e il suo candido sguardo compassionevole, privo di ogni sovrastruttura connaturata nella natura umana, trova straordinaria forza espressiva attraverso un composto senso di dignità. Tra le numerose sequenze indimenticabili, impossibile non citare il bacio di Marie a Balthazar che regge sul capo una corona di fiori, il gioco di sguardi tra l’asino e gli animali in gabbia che si esibiscono al circo, l’abbandono finale. Un’opera nobile e solenne, autentica poesia in immagini che poggia su una ineguagliabile sensibilità.

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