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I migliori film di Todd Haynes: la nostra top 3!

Cineasta tra i più eclettici e raffinati del cinema mondiale, Todd Haynes è uno dei più seducenti ed eleganti autori della sua generazione.

Californiano classe ’61, Haynes, gay dichiarato, divenne con la sua opera prima, Poison (1991), uno degli alfieri della militanza queer dell’inizio degli anni novanta, grazie a una storia a tinte forti che non mancò di scioccare il pubblico, nella sua fusione sfrontata di efferatezza e omosessualità, e di scandalizzare opportunamente e in maniera sintomatica i conservatori, spalancando anche le proprie porte al morbo orrorifico rappresentato dall’AIDS.

Il successivo Safe (1995), storia di ordinaria follia provinciale americana, darà vita al sodalizio del regista con Julianne Moore che continuerà anche in seguito, mentre di estremo impatto e altrettanta perizia cromatica, musicale e barocca è la memorabile rappresentazione del glam rock in Velvet Goldmine (1998), dove il regista dà fondo al proprio gusto rutilante, altrove ripiegato dentro prospettive più composte e trattenute.

Di quattro anni dopo è Lontano dal paradiso (2002), con una Julianne Moore abbagliante e premiata con la Coppa Volpi a Venezia per la sua interpretazione di una donna progressista e aperta al sentimento, mentre il successivo Io non son qui (2007), prismatico e rapsodico film a episodi sulle molteplici, frastagliate anime, ora oscure ora luminose, del cantautore americano Bob Dylan, è probabilmente ad oggi il capolavoro del regista e il suo film che più di ogni altro ha segnato in profondità, con la sua moltiplicazione di toni, di volti e di piani, gli scenari del cinema contemporaneo.

Di notevole impatto sono anche i successivi Mildred Pierce (2011), miniserie televisiva HBO con un’intensa e traboccante Kate Winslet, e soprattutto il levigato ma non per questo non infuocante melodramma omosessuale Carol (2015), con Cate Blanchett e Rooney Mara squarciate da una passione silenziosa e sopita sotto le castranti, struggenti superfici e le tacite apparenze della New York degli anni ’50.

Ecco la nostra classifica dei suoi tre migliori film!

3. Lontano dal Paradiso

Il talentuoso Todd Haynes dirige un’opera fiammeggiante, rendendo un sentito omaggio ai melodrammi americani degli anni Cinquanta, in particolare a quelli di Douglas Sirk, di cui Lontano dal paradiso rivela evidenti influssi: la pittorica fotografia in technicolor dai colori sgargianti, la colonna sonora avvolgente ed enfatica e soprattutto una serie di tematiche tipiche di quel periodo (infelicità coniugale, omosessualità, razzismo, amori impossibili). Haynes, però, rende il tutto più esplicito di quanto fosse possibile all’epoca di Sirk, per via della censura, amplificandone allusioni e sottotesti e attualizzandone lo spirito originario nel miglior modo possibile. Al di là della raffinatissima ricerca formale, che ne fa comunque un film prezioso, Lontano dal paradiso è un’accusa nei confronti dell’incapacità della società americana di affrontare, negli anni della segregazione razziale, la diversità sotto qualsiasi forma.

Leggi qui la nostra recensione completa del film.

2. Carol

Quattro anni dopo la miniserie Mildred Pierce, Todd Haynes torna dietro la macchina da presa per un melodramma elegante e raffinato, che, come il precedente Lontano dal paradiso (2002), racconta una passione tormentata tra due persone costrette a combattere contro i pregiudizi (di stampo razziale nel film con Julianne Moore) di una società perbenista incapace di accettare il loro amore. Quella che può apparire come una sofisticata cartolina d’epoca è in realtà una pellicola fortemente politica, capace di puntare coraggiosamente il dito contro un mondo che, oggi come allora, vuole dire la sua su quali sentimenti possano essere “accettabili” e quali, invece, non lo siano. I classici tòpoi del mélo anni ’50 vengono attualizzati da Haynes con spiccata personalità, attraverso una messa in scena minimale in cui gli omaggi espliciti alle tavolozze cromatiche dell’epoca vengono subordinati a una ricerca formale estremamente calibrata, tra sapiente utilizzo del fuori fuoco, un uso mirato del campo-controcampo e il formidabile ricorso a superfici ora opache ora trasparenti come veicolo espressivo di vicinanza o lontananza tra le due protagoniste. Aperto da una serie di sequenze di grande suggestione, il film colpisce per la struttura circolare («Tutto torna al punto di partenza») e per la capacità di suggerire emozioni forti senza cedere al minimo eccesso di pathos, nonostante si faccia leggermente prevedibile nella parte centrale.

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1. Io non sono qui

Arrivato al suo quinto lungometraggio, il regista indipendente Todd Haynes è riuscito a cogliere ogni sfaccettatura del grande cantautore folk, con un biopic atipico che non dipinge il soggetto in maniera obiettiva ma, al contrario, ne frammenta l’icona, osservandola (o, meglio, reinventandola) da diversi punti di vista. Un film, dunque, lontano anni luce dalle biografie classiche, in cui Haynes, ripudiando gli standard hollywoodiani, cerca di fare un dipinto completo dell’epoca in cui è vissuto il menestrello del rock, senza dimenticarsi di raccontare i risvolti sia sociali che politici degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, e ben amalgamandoli alla sfera privata ed emotiva del suo protagonista. Una regia impeccabile, inoltre, riesce a mantenersi rigorosa in ogni singolo frammento di questo splendido puzzle postmoderno, che trova un’intuizione vincente nella geniale trovata, già sperimentata da Todd Solondz in Palindromi (2004), di far interpretare ad attori totalmente differenti, per età, sesso e nazionalità, le varie anime di Bob Dylan. Un film potente e spiazzante, che cambia pelle di continuo come un rettile e riesce contemporaneamente a rendere affascinante, persino ammaliante, ogni passaggio narrativo e ogni cambio di stile, musicale o cinematografico che sia.

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