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Il divo: gli elaborati dei partecipanti al workshop su Paolo Sorrentino

Al termine del workshop su Paolo Sorrentino che LongTake ha tenuto presso lo spazio BASE lo scorso marzo, i partecipanti hanno analizzato alcune delle sequenze più importanti presenti nelle opere dell’autore italiano. Ecco di seguito i contributi di chi ha voluto partecipare:

VALENTINA BARTALESI
Sabbia
, Paolo Sorrentino (2015)

Sabbia è un cortometraggio realizzato da Paolo Sorrentino nel 2015 per Giorgio Armani. Posto in apertura della sfilata primavera/estate, esso affronta una dimensione ricorrente nella cinematografia di Sorrentino, quella dell’acqua e di ciò che gravita attorno ad essa: la sabbia, il mare e le vasche d’acqua, sono infatti sovente catturate dal regista con inquadrature subacquee e zenitali.
Il filmato prende avvio con una ripresa dall’alto sulle acque trasparenti delle isole Eolie; seguono poi senza soluzione di continuità una serie di frame a carrello fisso, dove l’occhio dell’autore indugia sui granelli vulcanici della spiaggia di Stromboli, per poi annegare nel mare e, riemergendo dolcemente, catturare il prospetto di un caseggiato a Lipari. Mentre scorrono queste immagini, si delinea sullo schermo il profilo di due corpi, resi quasi astratti dal punto di vista fortemente ravvicinato. I fianchi divengono dune e lo scrosciare perenne dell’acqua contro il fondale sassoso accompagna l’intera narrazione. Ancora, dopo essersi soffermato su alcuni dettagli squisitamente materici come delle ferraglie arrugginite, oppure più effimeri, quali lo stagliarsi dell’ombra di una persona sulla sabbia, Sorrentino svela finalmente le membra che fino ad ora ha celato. Si tratta (come già anticipato) di due corpi, uno maschile e l’altro femminile, distesi seminudi e fasciati da una corda che, nel contempo, li unisce. Un’immagine surreale, vicina iconograficamente alla “Venere restaurata” di Man Ray, ma più pura e adolescenziale insieme. Respirano piano, il petto sussulta, il mare s’infrange sul lido. Il tutto si chiude con la sequenza di un cane che, libero, corre verso di loro. Il costante brusio del mare e le immagini nitide e stimolanti (il suono e l’immagine) costituiscono le coordinate del progetto di Sorrentino che, come in altre pellicole, punta tutto sul rendere la narrazione onirica e sensoriale insieme, quotidiana e impossibile, intima e asettica. È un procedere per contraddizioni non dette ma percepibili; osservando il cortometraggio, pare davvero di avvertire la frescura del mattino e di potersi abbandonare a galla in un qualche lembo del Mediterraneo.
Come già segnalavo all’inizio, immagini acquatiche appaiono quasi sistematicamente nella cinematografia di Sorrentino. Vagliandola, c’imbattiamo così nelle atmosfere surreali de L’amore non ha confini (1998), corto che si apre con l’inquadratura di una spiaggia nell’alba attraversata da un carro o in quelle, più tarde, dei titoli di testa de L’amico di Famiglia (2006), con la ripresa a volo di uccello di una suora interrata nella sabbia. Una parentesi più documentarista riguarda invece la sequenza iniziale L’uomo in più (2001), in un frame veramente subacqueo non solo nella modalità ma anche nel contenuto. E l’acqua diviene pienamente substrato del sogno quando, nella Venezia notturna di Youth (2015), Miss Universo e Michael Caine si sfiorano; la “marea” crescendo improvvisamente di livello decreta la fine del momento onirico. Ancora (ma si potrebbero individuare molti altri esempi) l’acqua, mediante il rito dell’immersione, incarna lo spazio (liquido e reale) della catarsi in cui l’individuo può finalmente ritrovare sé stesso; così nelle scene subacquee de La grande Bellezza (2013), Youth (2015) e The Young Pope (2016).

 

CAMILLA GUENDALINA GANDINI
Scena finale This must be the place

This must be the place è il primo film internazionale di Paolo Sorrentino, girato in lingua inglese con cast completamente straniero. La pellicola ruota attorno al personaggio di Cheyenne, rockstar celebre negli anni ’80 che, già da tempo, ha abbandonato la scena musicale e si è ritirato nella grande villa a Dublino che condivide con la moglie. Cheyenne ha tutte le caratteristiche per entrare direttamente nel campionario delle maschere grottesche di Sorrentino: cerone bianco, rossetto rosso, occhi ampiamente truccati, capelli ingombranti, abiti sempre neri; tutti elementi che lo qualificano in tutto e per tutto come una figura senza tempo, nascosta dietro una maschera che lo segue e lo perseguita e che, prima, gli aveva garantito l’ingresso al mondo del successo e, ora, è simbolo dell’isolamento in cui si è auto-relegato e che lo rende apatico, privo di stimoli ed emozioni. Quella che sembra essere una routine abitudinaria e destinata a reiterarsi sempre uguale a se stessa viene, tuttavia, interrotta dalla morte del padre del protagonista. Cheyenne non ha rapporti con lui da circa trent’anni, non si sono mai conosciuti né veramente amati, tanto è vero che solo dopo la sua morte viene a conoscenza del fatto che il genitore avesse dedicato buona parte della sua vita alla ricerca del persecutore nazista dal quale era stato umiliato nel campo di concentramento in cui era stato detenuto. Una vita votata con estrema dedizione alla ricerca di una propria personale forma di vendetta che, tuttavia, non ha trovato sfogo e che Cheyenne decide di portare avanti come se chiudendo il cerchio cominciato dal padre riuscisse, in qualche modo, a sanare il (mancato) rapporto con il genitore. Il film diventa, allora, racconto di un viaggio, un viaggio sia geografico sia interiore-esistenziale, a tappe, lungo l’America lontana dalle metropoli. La scena in questione chiude non solo il film ma sancisce anche il ritorno dal viaggio, il nostos di questo novello e alquanto improbabile Ulisse che, dopo una serie di incontri più o meno surreali e dopo aver “vendicato” il padre, rientra a casa, in Irlanda. Ma chi lo attende? Cosa ci sarà dopo? Cheyenne chiude idealmente i conti non solo con il padre ma anche con il proprio passato: la rivelazione di se stesso, questa è la tappa conclusiva del percorso. Nel film tale epifania è evidente in maniera piuttosto palese nei minuti finali di questa scena ma viene, in parte, anticipata da alcuni atteggiamenti del protagonista, tra cui la decisione di viaggiare, nonostante il timore e la paura, su un aereo (e non su una nave, come all’andata) o l’accettare la sigaretta offertagli da un tecnico dell’aeroporto che segna il definitivo passaggio all’età adulta (solo i bambini non sentono il bisogno di fumare). Come già anticipato, la trasformazione eclatante è però riservata agli ultimi due minuti del film: Cheyenne ha finalmente deposto la maschera e con essa si è definitivamente congedato da un passato al quale non si sente più costretto ad ancorarsi. Il trucco, i capelli folti e corvini non ci sono più, non c’è più né un trolley né un carrello a due ruote da trascinarsi stancamente dietro le spalle, c’è solo una strada di un quartiere residenziale di periferia da percorrere e Cheyenne lo fa, con le mani in tasca, un passo non più lento e rigido e una nuova luce negli occhi, la stessa luce che ritroviamo anche nello sguardo della donna alla finestra, da anni in attesa di un figlio che, probabilmente, non tornerà più. Ma Cheyenne è tornato (a dimostrazione dell’interesse di Sorrentino per i legami non tanto di sangue quanto simbolici), è diventato se stesso e (finalmente) sorride, sincero perché “bisogna scegliere, una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura”. Come in altri lavori di Sorrentino (Il divo, La grande bellezza) anche questo film si chiude con un primo piano sul protagonista e una riflessione sul nulla, sull’inconsistenza di quelle che possono essere le nostre convinzioni (o perversioni) e allora tutto è vacuo, tutto diventa inafferrabile come il Dio immaginato oltre il filo spinato del campo di concentramento, “come certe donne che, da ragazzi, abbiamo solo sognato”. E solo ora che Cheyenne è nel posto dove deve essere il film può chiudersi, sulle note di “This must be the place”.

 

MATTEO SISTI
This must be the place

Nel suo viaggio stile “Road Movie”, dall’Irlanda all’America alla ricerca del nazista persecutore ad Auschwitz del padre appena morto e mai conosciuto, avendolo lasciato trenta anni prima, non sentendosi da lui amato, quando si truccava come ancora fa, Cheyenne, ex rock star – un magistrale Sean Penn – arrivato nel New Mexico viene ospitato dalla giovane Rachel. A poco più di un’ora di film (1:16), il piccolo Tommy, figlio della donna, arriva con una chitarra e dopo averla posta sulle gambe di Cheyenne, seduto sul divano, e una foto del padre morto in guerra su un comodino accanto, dice a un Cheyenne come sempre pacato, che si muove a una velocità tutta propria in un mondo da cui è da tempo escluso: “Io so cantare!”. Dopo un attimo di rifiuto e indecisione, Cheyenne suona per il bimbo THIS MUST BE THE PLACE, che ricorre di nuovo nel film dopo il concerto dei TALKING HEADS. La musica, sia che riempia i grandi balli corali nelle discoteche (L’UOMO IN PIU’ o LA GRANDE BELLEZZA), sia che accompagni i personaggi nel loro moto (come per Andreotti/Toni Servillo ne IL DIVO), o anche che venga usata con umorismo e in contrasto cogli avvenimenti (come nel recentissimo THE YOUNG POPE, quando Lenny Belardo/Jude Law esegue la vestizione papale a ritmo di “I’m sexy and I know it”), è sempre fondamentale in Sorrentino, e in THIS MUST BE THE PLACE è un tutt’uno col film, già dal titolo, una delle hit del gruppo rock anni ’80. Momento toccante e ironico, due componenti spesso unite in Sorrentino, suonare con il piccolo Tommy è per Cheyenne e per la sua intera vicenda doppiamente significativo, in quanto si ritrova per breve tempo nel ruolo insolito di padre, e torna a suonare dopo vent’anni di inattività, andando a un livello più profondo della sua crescita personale, in questo viaggio che è in realtà una ricerca di sé stesso. La paternità è tema ricorrente in tutta la filmografia di Sorrentino, orfano di entrambi i genitori a soli 17 anni a causa di una fuga di gas: anche il fuoco avrà una parte significativa nel viaggio di Cheyenne, in quanto l’auto, prestatagli da un amico, in sosta a una stazione di servizio, si incendierà per autocombustione avendo inserito troppo olio, cambiato poco più di un’ora prima…cosa rara, gli dirà l’uomo alla stazione, ma è un periodo in cui a Cheyenne di cose rare ne stanno accadendo molte, e la rarità delle situazioni e delle storie raccontate, nel loro spesso essere una contraddizione, è uno degli elementi topici in Sorrentino.

Maximal Interjector
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