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Don DeLillo alla Festa di Roma: "Amo Michelangelo Antonioni e il suo Deserto rosso"

Si ha la sensazione di essere davanti a un totem imperturbabile e assorto, quando ci si ritrova davanti il maestro della letteratura americana Don DeLillo, l’aria riflessiva e il volto teso in un sorriso appena accennato che sembra non rilevarne del tutto il mistero né schiuderne integralmente i pensieri. DeLillo dà l’idea di aver accettato l’invito del direttore artistico della Festa di Roma Antonio Monda con la massima riservatezza possibile, chiedendo peraltro espressamente di non essere né ripreso né fotografato durante l’incontro col pubblico.

In punta di piedi, però, con lo stile che gli è più congeniale, l’autore di Underworld ha stupito praticamente tutti leggendo, prima della conversazione con Monda, un suo testo inedito preparato appositamente per l’occasione e intitolato Porte e Muri: nient’altro che una parafrasi vivida e abbagliante, proprio perché scolpita nella prosa ineguagliabile dello scrittore, di alcune sequenze di Deserto rosso, film di Michelangelo Antonioni che DeLillo non fa mistero di amare alla follia.

Una venerazione che traspare eloquentemente dalle sue parole incantate e calibrate, sinuose ed evocative più che meramente descrittive. Viene scomodata l’arte di Rothko, con “la tela che trascende la sua categoria e diventa la base iniziale di un murale”, per citare una delle righe di DeLillo a proposito del film. Il testo dello scrittore di origini molisane è impossibile da riprodurre in maniera dettagliata e assoluta, proprio perché dotato della sintesi irripetibile e densissima del grande romanzo americano, ma i suoi spunti sono in compenso innumerevoli.

DeLillo non risparmia per l’appunto riferimenti all’arte per spiegare il suo approccio tanto sensoriale quanto intellettivo a Deserto rosso o quantomeno per dargli una forma esprimibile con il mezzo espressivo che gli è più congeniale, quello della scrittura, così diversa dalla narrazione per immagini. L’autore tira in ballo l’arte povera, l’object trouvé, il nome dei colori (Antonioni, dopotutto, chiese ai suoi collaboratori di dipingere tutto di grigio per Deserto rosso, anche la frutta), asserendo che “questa è la lingua del cinema” e che “il regista agisce solo in funzione della macchina da presa e del suo linguaggio, dovendo fare a meno, per forza di cose, della nitidezza della parola e della sceneggiatura”.

Per DeLillo Deserto rosso, abitato da un ennui di matrice romantica da intendere come un chiaro segno di tensione erotica, è cinema puro, perfino privo di suono, pneumatico; sta tutto in una risata vuota, in una breve frase triste, per non parlare della giustapposizione continua di oggetti, frasi e colori, questi ultimi tesi e dilatati fino a flirtare con le paure più ancestrali dell’uomo. “Questo film – prosegue DeLillo – insiste a dire che vale la pena notare tutto. Fino alla più sottile sfumatura. Sta qui l’anima inquieta del cinema di Antonioni, incaricata non di interpretare ma semplicemente di esistere. Deserto rosso è un film internalizzato, fatto con la vita…degli attori, oltre che dei personaggi.

Prima di abbandonare il leggìo e iniziare la conversazione con Monda, DeLillo chiude con una chiosa relativa al titolo del film: “All’epoca era stato frutto di una suggestione, come disse lo stesso Antonioni. Eppure oggi mi pare più che mai inevitabile per com’è stato concepito allora”. Quando comincia il dialogo e DeLillo ringrazia con quieta mitezza gli applausi del pubblico, è impossibile scrollarsi di dosso nell’immediato l’eco delle sue parole appena risuonate in Sala Petrassi, rilevatrici della stessa acutezza di cui sono permeati i suoi romanzi.

Mr. DeLillo, i dialoghi di Deserto rosso sono opera di un poeta, Tonino Guerra. Spesso si sovrappongono esplicitamente all’immagine. Quasi raddoppiano l’emozione, rispetto alla magistrale creazione visiva che Antonioni ha già messo in piedi.

Ho visto Deserto rosso dopo aver visto la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità. Si trattò del primo film a colori di Antonioni e mi colpì il fatto che facesse capire così bene il senso del colore sul grande schermo. Non può essere altrimenti quando il colore è usato in questa maniera e perfezionato con un tale grado di accuratezza. Oggi forse è qualcosa di normale e di superato, ma per l’epoca era assolutamente straordinario. Il film è sicuramente pieno di eccessi verbali, ma sono voluti. Alcuni dialoghi possono sembrare posticci e pretestuosi, ma questa dimensione non mi disturba affatto. E l’uso del colore va ad assumere un peso quasi superiore rispetto a quello dei personaggi, senza contare che il film è davvero diverso da ciò che Antonioni ha fatto ed esplorato in seguito. All’epoca si trattò di qualcosa di davvero rivoluzionario perché nessuno aveva mai visto niente del genere, negli anni Sessanta. Oggi i giovani pensano ai film di Antonioni molto spesso quasi esclusivamente attraverso cliché, legati all’alienazione che li abita – una definizione assai abusata – o al fatto che siano lenti e indiretti. Invece è cinema nella sua massima incarnazione e siamo fortunati che Antonioni abbia fatto ciò che ha fatto.

Che rapporto c’è secondo lei, oggi, tra le immagini del cinema e la scrittura? Le immagini stanno cambiando radicalmente o addirittura uccidendo il modo di scrivere?

Ad essere sincero non penso che ci sia un reale conflitto. Il mio lavoro è stato oscuramente influenzato in profondità dalle immagini del grande schermo, ma è un’influenza impossibile da definire, forse perché troppo astratta: non saprei dire, in fondo, se sarei stato lo stesso scrittore senza il cinema, è qualcosa di così intangibile che non ci voglio nemmeno pensare, preferisco mantenere una dose di inesprimibile mistero a questo proposito. Di sicuro però il modo in cui scrivo ha cominciato ad assumere un certo tipo di forma attraverso il cinema, pur trattandosi di un processo lento, scandito attraverso gli anni. Ho visto il lavoro di Antonioni, Fellini, Kurosawa, che di sicuro hanno rappresentato per me uno scossone enorme. Non penso che la letteratura sia messa in pericolo del cinema, è un altro mondo, completamente diverso. Il cinema è avventura nello spazio-tempo, la parola scritta ha una forza differente.

Uno dei suoi marchi di fabbrica, come scrittore, è la bellezza di certe immagini crudeli. Ritrova questo aspetto anche nel cinema che più ama? 

Alcuni film sono letteralmente focalizzati su questo contrasto. Penso a Bonnie & Clyde di Arthur Penn, dove non c’è alcun senso di condanna per la violenza, cosa che mi colpì molto all’epoca. Anche La rabbia giovane di Malick è sulla stessa falsariga, oltre che un film bellissimo e con delle immagini incredibili come tutti i film di Malick. Per non parlare de Il Padrino di Coppola, scolpito e costruito secondo criteri di assoluta bellezza ma totalmente immerso nella violenza. Anche Il Mucchio selvaggio, naturalmente, per la sua fotografia radicale, per le modalità con le quali viene illustrata la violenza.

Trova che sia un tema quintessenzialmente americano?

No, non solo e non esclusivamente. Penso a Gillo Pontecorvo, a La battaglia di Algeri. Per non parlare del cinema di Akira Kurosawa. O di Michael Haneke.

Si ricorda il primo film che ha visto al cinema nella sua vita?

Si tratta di una storia davvero da non credere. Credo fosse un film tratto da dei fumetti, anche se non ne sono sicuro, ma sicuramente si trattava di una versione animata de I viaggi di Gulliver, uscita quando io avevo due anni. Una storia famosissima, dunque, e io ho questo flash di me stesso con mia madre che mi porta in braccio in un cinema del Bronx e mio padre accanto a lei. Mi è tornata in mente tanti anni fa guardando la copertina di un libro. Si tratta di un ricordo che mi è balenato per caso e non se nemmeno dire se sia vero oppure no.

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