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"Dracula di Bram Stoker": 25 anni tra amore e dannazione

Benvenuto in mia casa. Entrate e lasciate un po’ della felicità che recate.

Così il conte Dracula (Gary Oldman) accoglie nel suo castello il giovane Jonathan Harker (Keanu Reeves), inviato in Transilvania per discutere di questioni lavorative e che, invece, si ritroverà a dover affrontare una realtà che mai avrebbe immaginato potesse esistere. È così che Francis Ford Coppola nel 1992 riscrive Dracula, portando sul grande schermo un nuovo racconto del vampiro della Transilvania, capolavoro assoluto capace di trascendere ogni genere, di riscrivere il romanzo (con alcune differenze evidenti e decisive) e, così facendo, regalando alla settima arte un’opera immensa. Etichettare Dracula di Bram Stoker come un horror è quanto di più riduttivo si possa fare per una pellicola di tale portata: il film di Coppola, infatti, è soprattutto un film d’amore. Un amore dannato, perduto, ritrovato e nuovamente perso, un film sul peccato e sulla riconciliazione (con se stessi) e, con essa, sulla libertà. Certo, una storia d’amore che si muove in atmosfere inquietanti e cupe, oltre che in un continuo e raffinato omaggio all’espressionismo tedesco, in particolare – e non poteva essere altrimenti – allo splendido Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, che proprio in quell’anno festeggiava il suo 70° anniversario. Ora il conte Orlok può chiamarsi Dracula e al posto di Max Schreck troviamo Gary Oldman, che regala una performance indimenticabile nel ruolo del Conte, capace di rendere giustizia e di reinterpretare, elevandolo, un personaggio tanto complesso, che tanti hanno portato sul grande schermo – anche diventandone icone, come Bela Lugosi e Christopher Lee – e cui l’attore londinese riesce a infondere tutto il fascino tragico e romantico, seppur mostruoso e animalesco nella sua trasformazione, che trasuda da ogni sequenza dell’opera, della quale è sicuramente assoluto protagonista e valore aggiunto. Coppola decide infatti di donare un passato concreto al Conte, che un tempo fu fervente combattente a favore della Chiesa, prima di rinnegare Dio dopo la morte della sua amata Elisabeta, reincarnatasi poi nella splendida Mina (Winona Ryder).

Voi, spero, mi scuserete se non mi unisco a voi, ma ho già cenato e non bevo mai… vino.

Una figura duplice, quella del Conte, che sa essere principesco e regale padrone di casa ma anche bestiale e demoniaco essere assetato di sangue, in quell’espressionistico doppio che è caratteristica estetica non indifferente in un’opera così magistralmente diretta. E l’altro doppio di Dracula, in questo caso, è il giovane Jonathan Harker, timido e impacciato promesso sposo di Mina, un personaggio che, seppur tra i protagonisti, sembra tuttavia mancare di carisma, anche se probabilmente ciò avviene perché messo totalmente in ombra dall’enormità dell’interpretazione di Oldman. Al contrario, Anthony Hopkins è un Van Helsing totalmente diverso da quello descritto nelle pagine di Stoker, ma non per questo meno efficace e incisivo, con i suoi toni ferventi e forti, dalla personalità dura. E poi, naturalmente, Mina: Winona Ryder riesce a donare delicatezza e nobiltà a una figura femminile complessa e combattuta, attratta da un Conte che sa essere un mostro, provando a respingerlo ma non riuscendoci mai, come se fosse legata a lui, come se sapesse di conoscerlo da sempre. Di amarlo da sempre.

Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti.

Una storia d’amore a tutti gli effetti, e tra le più toccanti e intense viste sul grande schermo. Lo spettatore si trova infatti spiazzato da un evento tanto importante, benché totalmente assente nel romanzo di Stoker. Francis Ford Coppola quasi legittima la figura di Dracula, ribaltando la prospettiva classica e non dipingendolo affatto come un mostro classico, ma motivando le sue azioni come una ricerca dell’amata perduta e finalmente ritrovata, una donna per la quale potrebbe fare qualunque cosa, con il sangue che diventa metafora efficace di passione, di un sentimento tanto forte da non poter restare rinchiuso nell’anima. La sua dannazione, dunque, non è tanto l’essere divenuto un vampiro assetato di sangue, un non morto: la sua condizione di essere non vivente deriva proprio dal fatto di aver perso l’amore della sua vita, la sua ragione di vita, Elisabeta. In tal senso risulta incisivo e toccante il finale, in cui è proprio Mina a donare la morte – e con essa la pace e la vita eterna – al suo amato, liberandolo dalla dannazione ed elevandosi a figura salvifica e quasi angelica. Che, dopo 25 anni, resta ancora commovente e indelebile nella memoria.

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