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I 5 migliori film di Michael Haneke

Michael Haneke è uno dei più rigorosi e venerati autori europei: autore di un cinema scomodo e densissimo, urticante e raggelato, la cui implacabile profondità psicologica è un tutt’uno con la propria costante riflessione formale, mai banale e quasi sempre in grado di spingere un po’ più in là l’asticella della riflessione teorica in seno al cinema contemporaneo.

Pluripremiato cineasta austriaco e vincitore di due Palme d’Oro a Cannes (Il nastro bianco e Amour), è lui il regista di cui vi proponiamo la nostra top 5 in occasione dell’uscita in sala di Happy End, il suo ultimo lavoro presentato in concorso allo scorso Festival di Cannes.

Qui potete leggere la nostra scheda recensione di Happy End, mentre di seguito ecco quelli che, a insindacabile giudizio della redazione di LongTake, sono i suoi cinque film migliori.

5) Il nastro bianco

Il (nastro) bianco caratterizza i bambini del villaggio come esseri immacolati e incapaci di qualsiasi forma di “sporcizia morale”. In realtà proprio dentro di loro vi è la forma di iniquità peggiore: il germe della violenza e del nazismo che verrà. Il nastro bianco sembra quasi un trattato filosofico: Haneke (come sempre) mostra pochissimo e lascia intendere molto sulla società, in divenire, che vuole rappresentare. La grande ambizione contenutistica del film viene accompagnata dalla fotografia memorabile di Christian Berger (nominato all’Oscar nel 2010): raggelante, magniloquente, solenne. Un bianco e nero splendido, unito a una regia sempre precisa fin nei minimi movimenti, rendono la pellicola un’opera esteticamente eccelsa, tra i migliori risultati del geniale regista di Funny Games (1997) e Niente da nascondere (2005). La freddezza estrema della fotografia, e del film in generale, crea però una sorta di barriera nei confronti di uno spettatore che fatica a entrare fino in fondo nella vicenda: si rimane a bocca aperta più per le immagini magnifiche che per la scoperta che, dietro a quei volti candidi, si nascondono i carnefici della Germania del futuro.

Qui la nostra scheda completa del film.

4) La pianista

La pianista

Presentato al Festival di Cannes 2001, La pianista è l’adattamento cinematografico del romanzo del 1983 Die Klavierspielerin, scritto dal Premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek. Grazie a una straordinaria Isabelle Huppert, Haneke riesce a portare sullo schermo una storia cruda e violenta, che diventa ancora più disturbante grazie al viso pulito e ai modi eleganti della protagonista: il regista scava a fondo nei territori estremi e malsani della psiche umana con enorme spessore e con una lucidità a dir poco invidiabile. Valore aggiunto che rende La pianista ancora più pregnante è la componente sonora, che non si rivela mero elemento stilistico, ma travalica i confini letterari e cinematografici penetrando a fondo nel terreno delle emozioni e della “malattia” di Erika.

Qui la nostra scheda completa del film.

3) Amour

Amour di Michael Haneke

L’amore da sempre danza pericolosamente sul sottile filo che separa la vita dalla morte, un sentimento puro che qui diventa protagonista unico e oggetto di studio per Michael Haneke. Amour, infatti, racconta (anche) dell’unico impulso in grado di allontanare la morte, anche in una situazione disperata e irreparabile. Affiancato da un impianto visivo perfettamente calibrato in ogni singola componente (dalla fotografia alla recitazione), Haneke riesce a trasmettere e a raccontare una vicenda umana e toccante, innescando una spirale verticale e vertiginosa, dalla quale sembra non esserci uscita se non attraverso l’estremo gesto finale (anticipato dal flashforward dell’incipit). Amour, come Niente da nascondere (2005) o Funny Games (1997), gioca con lo spettatore, gli chiede di riflettere, lo lascia nel dubbio e nell’incertezza.

Qui la nostra scheda completa del film.

2) Funny Games

Funny Games

Film culto dell’intera carriera di Haneke, Funny Games si sviluppa sul confine dell’ambiguità tra realtà e finzione, intessendo progressivamente una serie di meccanismi contradditori che omettono la violenza di tipo etnico e sociale in favore di un sadismo ludico che vede come agenti provocatori due “angeli” sterminatori. L’ossessiva indagine del regista austriaco nei meandri più crudeli della società contemporanea lo conduce in un territorio destabilizzato, dove la violenza è quotidiana e le regole del “gioco” vengono infrante (come non citare la famosa scena del telecomando dove l’azione appena compiuta torna indietro, come un replay televisivo, ma con esito differente). Convinto assertore del falso-cinematografico, Haneke mette in scena con Funny Games un kammerspiel claustrofobico e letale, spaccando critica e pubblico che, allo stesso modo dei casi di cronaca nera, si dividono tra innocentisti (fan) e colpevolisti (detrattori). Un tassello fondamentale e decisivo nell’opera di un regista che ha fatto del dialogo tra pellicola e spettatore il cardine della sua perfida poetica, e che ha saputo, come pochi altri, instillare dubbi e inquietare ogni tipo di fruitore.

Qui la nostra scheda completa del film.

1) Niente da nascondere

Niente da nascondere di Michael Haneke

Dopo avere indagato il male ontologico che invade l’Europa contemporanea con Il tempo dei lupi (2003), in Niente da nascondere Michael Haneke analizza il senso di colpa opprimente che aleggia sugli europei. Il film, vincitore del premio per la Miglior regia al Festival di Cannes 2005, descrive come un ambiente retto su norme sociali condivise possa venire improvvisamente sconvolto da un malessere tanto sgradevole quanto inaspettato, proveniente da un passato dimenticato o ignorato. Come indica il titolo italiano (anche se è molto più calzante l’originale Caché), non c’è niente da nascondere: viene mostrato tutto ciò che c’è da mostrare, non dando risposte ma ponendo solo domande. L’intento dichiarato del regista è infatti quello di annullare la barriera tra conoscibile e inconoscibile, raccontando qualcosa di apparentemente nascosto che si annida nella banalità del quotidiano, e che affonda le sue radici nell’innocenza e nella violenza dell’infanzia, trasmettendo allo spettatore quel senso d’angoscia tipico del perturbante freudiano. Il leitmotiv di Niente da nascondere vive continuamente sull’ambiguità dell’immagine (è quella del regista o è quella del voyeur nel film?), in un’alternanza di campi medi e lunghi, immobili nella loro asetticità, che si sovrappongono ai primi piani svuotati di ogni emotività.

Qui la nostra recensione del film.

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