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I migliori film di Spike Lee: la nostra top 10

Col suo cinema veemente e dal forte impatto militante e politicamente schierato, Spike Lee ha segnato in profondità il cinema americano degli ultimi decenni, diventando nel tempo una voce dal timbro riconoscibile e con ogni probabilità il più famoso regista nero di tutti i tempi.

Forte di uno sguardo acceso, incandescente e puntualmente indispettito, il cinema del regista affronta di petto la politica e la società americana del suo tempo, rappresentata come un flagrante e sbalestrato compendio di razzismo, violenza, droghe, personaggi spesso al limite. A svettare sopra ogni altra cosa nel suo corpus di opere, tuttavia, c’è sempre l’identità nera, il suo orgoglio ma anche le contraddizioni e le ferite ad essa connesse, che il regista ha saputo rappresentare in maniera vigorosa, quasi sempre con schiettezza e senza paraurti.

Spike è anche un affermato regista di spot pubblicitari e videoclip, è famoso per la scritta A Spike Lee Joint, che appare puntualmente all’inizio di ogni suo film, ha ricevuto un Oscar alla carriera nel 2015 ed è anche amico di Michael Jordan, col quale ha collaborato per un campagna pubblicitaria della Nike. Fin da piccolo è un acceso tifoso dei New York Knicks, squadra di basket dell’NBA della quale è spettatore fisso.

Spike Lee, il cui ultimo film Da 5 Bloods - Come fratelli è sbarcato oggi su Netflix, doveva anche essere il presidente dell'edizione 2020 del Festival di Cannes poi annullata, portando la sua nuova fatica fuori concorso sulla Croisette. 

Ecco quella che, a nostro avviso, è la top 10 dei suoi film migliori. 

10) Bad 25 (2012)



Tratto distintivo assolutamente incontestabile, ben messo in risalto da Spike Lee, è la sua fragilità emotiva, minata da una popolarità a volte per lui insostenibile, tanto da ricorrere a veri e propri travestimenti per poter godere di quell'anonimato di cui sente fisiologicamente il bisogno. Tra i momenti più significativi dell'opera sono sicuramente da citare le emozionanti immagini delle esibizioni al Bad World Tour (da brivido il delirio dei fan sulle note della straordinaria Man In The Mirror).

9) Lola Darling (1986)



Spike Lee confeziona un'anti-favola dove a trionfare non è il lieto fine, sancito da una tradizione culturale e morale distante dalle esigenze concrete delle persone, ma il desiderio di libertà, di indipendenza morale e sociale di una donna e l'esigenza di avere il controllo sulla propria vita e sul proprio corpo. Sorta di Rashomon metropolitano, in cui la verità si perde nella testimonianza dei protagonisti, è un esordio di grande libertà intellettuale ed estetica che fece scalpore, aiutando a emancipare il cinema afroamericano dai luoghi comuni della blaxploitation.

8) Chi-Raq (2016)



Mette le cose in chiaro fin dal prologo, Spike Lee con il suo Chi-Raq: una cartina stilizzata degli Stati Uniti d’America con tante miniature di armi giustapposte, a sostituire la riproduzione in scala dei singoli Stati e dei confini che li separano. Accanto a tale immagine dal provocatorio impatto, ecco entrare subito in campo il flow del brano Pray 4 My City di Nick Cannon, i cui versi eloquenti e sferzanti («And y'all mad cause I don't call it Chicago, but I don't live in no fuckin' Chicago, boy I live in Chi-Raq») spiegano cosa voglia dire, nell’America del 2015, essere afroamericani e vivere nelle pieghe vulnerabili di un tessuto urbano e nazionale che, con il tempo, ha interiorizzato sempre di più il proprio razzismo congenito e ampiamente sedimentato, inestirpabile anche in tempi di retorica black e negli anni del primo presidente di colore alla Casa Bianca.

7) S.O.S. Summer of Sam – Panico a New York (1999)



Maestro del film corale, nel fare entrare lo spettatore nelle strade e nei locali di New York, Lee non dimentica gli individui, anzi ne fa il centro: in definitiva, una profonda storia di amicizia tra due uomini cresciuti insieme e diversissimi, il cui legame è messo alla prova dai sospetti verso il diverso e dalla difficoltà ad accettare scelte lontane dal conformismo di quartiere. Teso e serrato, è un film da vedere e rivedere. 
 
6) He Got Game (1998)



He Got Game ha una doppia anima: dramma familiare, apologo sulla seconda occasione e sulla forza dell'amore e del perdono da un lato; circostanziata, accorata, perfetta descrizione delle storture del sistema sportivo americano dall'altro. Una denuncia feroce contro la divinizzazione degli adolescenti (neri, con famiglie disastrate, cresciuti nei ghetti), obnubilati dalla fama e corrotti dal denaro facile, e un'opera di grande solidità, esaltata dalla sua natura ambigua e spezzata dalla medesima frattura che caratterizza il nome del protagonista.

5) Inside Man (2006)



Spike Lee si piega alle più stringenti maglie del cinema di genere, confezionando un solido e convincente caper movie (“film del colpo grosso”) dagli elementi accuratamente organizzati: un protagonista carismatico, un caveau inaccessibile, un piano perfetto, un degno antagonista, una punizione da scontare. Ma come l’ambiguo Dalton Russell, anche il regista gioca con lo spettatore e, grazie alla perfetta sceneggiatura di Russell Gerwitz, procrastina lo scioglimento, invitando a trarre conclusioni ingannevoli e omettendo dettagli fondamentali: qual è il bottino? Quanti sono i ladri? Perché hanno scelto proprio quella banca? Un film senza punti deboli, forse meno autoriale rispetto ad alcune opere precedenti di Lee, ma ripulito da istrionismi registici e discorsi a tesi. Il risultato – nella sua assenza di conflitto tra il ladro e il poliziotto, nella chiara indicazione (forse un po’ eccessiva e risalente ai peccati originali del Novecento) sui veri cattivi della Storia (al netto di crisi mondiali e Occupy Wall Street ancora da venire) e nell’affettuoso omaggio a Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) di Sidney Lumet – si dimostra purissimo e coerente.

4) Malcolm X (1992)




Dramma biografico diretto da Spike Lee, che adatta con Arnold Perl l’Autobiografia di Malcolm X scritta da Alex Haley, elevandola a mezzo per una necessaria presa di coscienza sull’impegno come afroamericano. Il risultato è un kolossal che evita di scolpire il busto di un eroe senza macchia, ma ne racconta diffusamente l’evoluzione e la crescita, dando grande spazio alla gioventù criminale e alle fasi più controverse (ma debitamente circostanziate) dell’attivismo politico, dal separatismo nero alla contrapposizione anche violenta con la cultura bianca. Il finale, che segue la definitiva conversione all’Islam e l’acquisizione di una consapevolezza più forte verso la convivenza pacifica e il movimento per i diritti civili, è disperato come una grande occasione mancata dall’America nera, che piange il salvatore perduto, ma che pure ha armato il suo assassino.

3) Clockers (1995)


Spike Lee eredita un progetto di Martin Scorsese (rimasto come produttore), adattando per lo schermo l’omonimo romanzo di Richard Price, che inizialmente non gradì la decisione del regista di privilegiare la storia dello spacciatore rispetto a quella del poliziotto che gli dà la caccia. Ma il giovane del ghetto, in bilico tra la tentazione della malavita e la speranza del cambiamento, è un personaggio pienamente nelle corde di Lee, che prende la sua storia ad esempio per un deciso atto d’accusa contro la violenza delle strade statunitensi, attaccando direttamente la cultura gangsta di molti afroamericani influenzati da certo rap di grande successo.

2) Fa' la cosa giusta (1989)



«Non si può scindere l’odio dall’amore, sono due mani dello stesso corpo». Così ammoniscono in chiusura le citazioni delle due principali coscienze nere d’America: Martin Luther King e Malcolm X. Corre un’elettricità cattiva per le strade di Brooklyn, un odio strisciante, una marea montante come la colonnina di mercurio, come le note di Fight the Power sempre più alte dagli altoparlanti di Radio Raheem (Bill Nunn): «Most of my heroes don’t appear on no stamps» («La maggior parte dei miei eroi non appare su nessun francobollo»). Spike Lee, poco più che trentenne, filma nel suo quartiere quello che resta probabilmente il vertice insuperato della sua carriera: affresco corale, fotografia spietata della facilità dell’odio e dell’impossibilità della convivenza, del rispetto reciproco e della comprensione in America. Film vivissimo e insieme amaramente impotente, come impotente è il personaggio di Mookie (interpretato dallo stesso Lee), unico impiegato nero della pizzeria e semplicemente incapace, o per meglio dire impossibilitato, ad aiutare la sua comunità nel superare il conflitto.

1) La 25ª ora (2002)



Dal romanzo omonimo di David Benioff, anche sceneggiatore, un dramma sul mito americano del ripartire da zero, mirabilmente diretto da Spike Lee. La venticinquesima ora del titolo, così evocativo e misterioso, è un simbolo tangibile, il miraggio della seconda possibilità, la metafora degli Stati Uniti pronti a restituire un po’ di quello che l’uomo (con le sue mani) si è negato, affossandosi attraverso un esercizio lucido e autodistruttivo del proprio libero arbitrio, in una variante rovesciata e capovolta di segno del sogno americano e del self made man. Ma esistono seconde possibilità, è possibile ripartire o anche solo vagheggiare un orizzonte di speranza, dopo l’11 Settembre? Il regista è il primo cineasta in assoluto a posizionare fisicamente una macchina da presa affacciata sul baratro lasciato dall’11 settembre dentro Ground Zero, ma anche uno dei primissimi a indagare dal punto di vista umano e individuale cosa significhi, negli Stati Uniti traumatizzati dal collasso emotivo e sociale di un paese, il concetto di responsabilità e di colpa collettiva. Uno straordinario apologo sull’accettazione, la fuga, l’utopia di un possibile ma non scontato nuovo inizio. Forse il film più incisivo di Lee, con almeno tre sequenze da antologia: il dialogo tra i due amici di Monty di fronte al cratere di Ground Zero («Cosa abbiamo fatto per impedirgli di rovinarsi?»); la topografica, totalizzante invettiva alla specchio di Brogan nei confronti di New York, che diventa consapevolezza del proprio personale fallimento; il viaggio in auto con il padre verso il carcere, con l’esplicitazione del sogno di ricominciare e la consapevolezza che soltanto di sogno, appunto, si tratti.

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