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Il cinema di Paolo Sorrentino: la nostra top 5!

Paolo Sorrentino è di fatto il regista italiano di maggior richiamo del nostro tempo, in termini sia autoriali che commerciali.

Fin dal suo esordio, L’uomo in più, la considerazione di cui Sorrentino ha goduto è andata crescendo in maniera vertiginosa, trovando nel film successivo, Le conseguenze dell’amore, una notevole conferma e in L’amico di famiglia un lieve appannamento, nella ricezione della critica, giusto un po’ più marcato.

Sorrentino ha però portato a casa, con il successivo Il divo, una delle pagine più importanti della storia del cinema italiano degli ultimi anni: vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, il film è una spericolata rivisitazione, acida, nerissima e grottesca, della vita di Giulio Andreotti e, per quanto ci riguarda e come scoprirete nella classifica che segue in fondo all’articolo, probabilmente il capitolo complessivamente più ragguardevole nel cinema del regista napoletano.

Dopo l’esordio americano al fianco di Sean Penn in This Must Be The Place, è con La grande bellezza che Sorrentino ottiene le stigmate del regista internazionale e del genio italiano esportabile nel mondo: il film conquista il premio Oscar al miglior film straniero, al culmine di una miriade di premi nel mondo, suscita in Italia un incredibile dibattito mediatico che scoperchia più di un nervo scoperto nel tessuto culturale del paese e si erge a fenomeno di costume in grado di spaccare in due l’opinione pubblica, come fece a suo tempo La dolce vita di Federico Fellini.

Seguono Youth – La giovinezza, progetto più libero, a lungo accarezzato e scritto in una manciata di giorni, e la folgorante serie tv The Young Pope (cui nel 2020 ha fatto seguito The New Pope) con Jude Law, dove Sorrentino si diverte a spiazzare e a lavorare sui cortocircuiti della religiosità, comprimendo e condensando vizi, vezzi e soprattutto virtù del suo cinema per plasmarli alle esigenze del mezzo televisivo.

L’ultimo progetto cinematografico di Sorrentino è quanto di più avventato e allo stesso tempo naturale si potesse immaginare per il suo percorso, di fatto una chiusura del cerchio che congiunge Il divo e La grande bellezza nel terzo anello di un’ideale trilogia: Loro, con l’ex premier Silvio Berlusconi interpretato ancora una volta daToni Servillo: opera divisa in due parti, Loro 1 Loro 2, dove è soprattutto quest'ultima a colpire, raccogliendo i frutti di quanto seminato nella prima metà, con un titolo ambivalente che si riferisce anche al rapporto tra Silvio Berlusconi e Veronica Lario (Elena Sofia Ricci).

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5) L'uomo in più

L'esordio alla regia di Paolo Sorrentino contiene in nuce alcuni degli stilemi che faranno grande il suo cinema ma manifesta anche un'evidente mancanza di maturità. Nonostante vengano anticipate le riflessioni esistenziali presenti nelle pellicole successive, il film risulta essere poco coeso, denso di spunti interessanti che però si disperdono facilmente. Le vicende dei due Antonio Pisapia sono messe in scena in modo credibile e segnano l'inizio della collaborazione con Toni Servillo, attore-feticcio di Sorrentino, presente in molti dei lungometraggi del regista napoletano.

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4) Le conseguenze dell’amore

Secondo lungometraggio firmato dal talentuoso Paolo Sorrentino e seconda collaborazione con Toni Servillo, Le conseguenze dell’amore costruisce intorno all’enigmatico personaggio di Titta Di Girolamo una profonda riflessione esistenziale sulla fame di relazioni umane, impossibile da ignorare anche a costo della propria vita. Ambientando l’azione in una soporifera e silenziosa Lugano, Sorrentino impiega funzionalmente le atmosfere rarefatte, il vuoto e l’assenza di contatti, trasformando la ripetitiva e alienante routine di Titta, sempre uguale a se stessa, in una penosa catena di disperazione che solo la discreta presenza di Sofia potrà spezzare, con la delicatezza imperturbabile della goccia d’acqua che scava la roccia. La visionarietà del cineasta emerge in particolare in alcune sequenze di dirompente potenza, come il momento in cui il protagonista fa ricorso alla droga o come il finale di pacata tragicità.

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3) Loro 2

Il secondo capitolo del dittico dedicato alla figura di Silvio Berlusconi è il miglior punto d'arrivo possibile per tutto il materiale accumulato nel film precedente. Aggredendo fin da subito la mitologia berlusconiana (ovvero il suo essersi fatto completamente da solo), Sorrentino insiste sulla suggestione di un venditore di sogni, che dichiara di non offendersi mai, incapace di celare - attraverso stratagemmi espressivi e persuasivi - la sua vera natura di maschera imprigionata nel proprio avanspettacolo. I legami estetici e concettuali a Il divo si fanno più fitti e serrati, anche se ribaltati di segno vista la natura caratteriale antitetica di Berlusconi rispetto ad Andreotti. In vista della chiusura della giostra, il regista mette da parte il vitalismo selvaggio, lussurioso e immemore per farsi largo tra le macerie, come suggerito dall’incredibile finale.

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2) La grande bellezza

Omaggio alla Dolce Vita felliniana, ritratto impietoso della vuotezza estetizzante della società borghese contemporanea, galleria meravigliosa di una capitale languida e agonizzante, poema sull’inutilità della vita e sulla tragedia dell’invecchiamento: La grande bellezza, nel suo girovagare ebbro e sonnolento da una terrazza all’altra della Roma bene, è tutto questo e molto di più. Grazie allo sguardo sornione e cinico di Jep Gambardella (un perfetto, iconico, indimenticabile Toni Servillo) ha inizio un onirico, inebriante e barocco viaggio tra l’interiorità dell’uomo posto davanti alle ineluttabili domande della vita e la sua reazione più immediata e sanguigna per anestetizzarne la tragedia: buttarsi in un carnevale grottesco e ripugnante per illudersi di sconfiggere la morte. Tra ghigni pietrificati dal botulino, danze macabre incarnate da squallidi personaggi, conversazioni vorticosamente impegnate a girare intorno al nulla, nascondendolo, Gambardella si muove come uno spettro, osservando, giudicando e, forse, impietosendosi per le misere umanità che rispecchiano la sua essenza di individuo irrisolto, senza senso, fondamentalmente solo. Ed è la solitudine l’orrendo moloch che Sorrentino descrive con virtuosismo a tratti arrogante in ogni sua opera, trovando qui l’estetizzazione suprema, eccessiva e magniloquente del più grande dramma dell’uomo contemporaneo. La grande bellezza è la storia di una ricerca impossibile: non racconta una storia perché le racconta tutte, non parla di nulla ma lo fa con sublime, rigorosa eleganza.

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1) Il divo

Un incipit folgorante, sulle splendide e stranianti note del Toop Toop del duo francese Cassius, in cui vengono mostrati gli omicidi illustri (da Mino Pecorelli al Generale Dalla Chiesa, da Ambrosoli a Roberto Calvi) in qualche modo legati all’oscura figura di Giulio Andreotti, è soltanto l’inizio di uno dei lungometraggi (italiani e non solo) più significativi del primo decennio del nuovo millennio. Non c’era modo, prima di Sorrentino, di condensare le vicende drammatiche degli anni bui del nostro Paese senza scadere nella retorica o nel didascalismo da miniserie tv: eppure, con questa straordinaria pellicola, il cineasta riesce a regalare un ritratto dinamico e innovativo, inquietante e coinvolgente, visionario e onirico, realista e in perfetto equilibrio tra storia e immaginario. Toni Servillo muta letteralmente nel Divo Giulio, incarnandone difetti e nevrosi, mimeticamente il modo di parlare pacato e al contempo agghiacciante, costruendo il ritratto di un uomo dalle minute fragilità, quasi invisibili sotto la coltre di gelida freddezza e di incrollabile consapevolezza del fatto che sia «necessario il male per avere il bene». Sequenze che si incidono indelebilmente nella memoria storica di un Paese martoriato: dal grottesco e celeberrimo bacio con il boss mafioso Totò Riina ai giorni angosciosi del sequestro Moro, dal monologo alla moglie Livia (Anna Bonaiuti), che parla in realtà al popolo italiano, alla scena, commovente e terrificante a un tempo, dei due coniugi che ascoltano I migliori anni della nostra vita di Renato Zero tenendosi per mano, per evitare i programmi in cui si parla delle accuse di associazione mafiosa per il senatore. Un documento irritante e sublime, dal fascino mostruoso e mefistofelico come quello emanato dalla figura ingobbita del divo Giulio. Senza mai prendere apertamente posizione, Sorrentino riesce elegantemente a suggerire un punto di vista, inequivocabile quanto pericolosamente oggettivo, non trascurando di lasciare intravedere nel moloch andreottiano sparuti sprazzi di umanità: coraggioso, sfacciato, necessario, estetizzante.

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