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Intervista a Berni Goldblat

Berni Goldblat è un regista, produttore, docente e operatore culturale svizzero-burkinabé.

Il suo film più premiato è Ceux de la Colline, mentre il più recente è Wallay, primo lungometraggio di finzione dopo una lunga esperienza come documentarista. Gli abbiamo rivolto alcune domande dopo la proiezione di Wallay allo scorso Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano (19 – 26 marzo 2017) dove ha vinto il premio Polis, un premio che ha permesso al COE di acquisirne i diritti per la distribuzione in Italia tramite noleggio dal Catalogo COEmedia distribuzione Cinema (per info scrivere a distribuzione@coeweb.org).

In Wallay il protagonista è Ady, tredicenne di seconda generazione che vive nella banlieue francese. Come ha deciso di debuttare nella finzione proprio con la storia dell’iniziazione di questo ragazzino, che solo in Burkina capirà come sia per lui arrivato il momento di mettersi in discussione e fare i conti con la propria questione identitaria?

Avevo voglia di cimentarmi nella finzione, mi affascina da sempre.L’adolescenza è un’età molto interessante, in cui niente è definitivo, tutto è in divenire. In particolare volevo seguire un giovane che vi è appena entrato. A volte è come un bambolotto da abbracciare, altre è un giovane arrogante che vorremmo schiaffeggiare. L’iniziazione gli permetterà di scoprire il tesoro nascosto che custodiva dentro di sé senza saperlo: la sua doppia cultura.

Attualmente Makan Nathan Diarra , l’esordiente che interpreta Ady, sta accompagnando il film in vari festival. Si tratta per lui di un parallelo coming of age?

È ancora presto per rispondere a questa domanda. Tra due anni potremo dirlo. Ciò che è certo è che è stata una prima esperienza per Makan al cinema e che tanto l’uscita del film nelle sale francesi, quanto i numerosi festival sono state esperienze formidabili per lui. Non solo ha imparato a recitare, ma anche a relazionarsi con il grande pubblico e con la stampa, cosa non scontata. Ha già recitato in un altro film e siamo alla ricerca di un agente per lui.

Viceversa, altri tre protagonisti del film hanno una più lunga carriera alle spalle: si tratta di Hamadoun Kassogué (Bamako, KabalaN: The Madness of Reason), Joséphine Kaboré (RabiZan Boko e Buud Yam – Il senso della famigliaSafi, la petite mère) e Ibrahim Koma (WuluLe Crocodile Du BotswangaAsphalt Playground). Troviamo inoltre lo scrittore migrante David Bouchet alla sceneggiatura (sua quella di La Pirogue di Moussa Tourè) e Martin Rit come direttore della fotografia. Come ha lavorato con un simile gruppo di lavoro internazionale?

In effetti è una squadra molto meticcia, com’è in definitiva il film stesso: un film meticcio.  Nella sostanza, indubbiamente, ma anche nella forma. É stata una formidabile esperienza di lavoro con tutte queste persone provenienti da diversi orizzonti (Francia, Burkina Faso, Mali, Benin, Costa d’Avorio, Senegal). Wallay è una co-produzione franco-burkinabé e la squadra tecnica era mista. Sono convinto che questo sia stato un notevole vantaggio per il film. Anche il montatore Laurent Sénéchal è franco-burkinabé. Fino alla fine della catena di lavorazione del film ritroviamo questa sensazione ibrida. Ho avuto la grande fortuna di avere una squadra formidabile al mio fianco.

Quest’ultimo periodo vede l’Europa alle prese con i fondamentalismi e con un razzismo crescente e difficile da contrastare, mentre Wallay fa la scelta coraggiosa – cito le sue parole – di presentare “la diversità come ricchezza”. Quali sono le reazioni che sta riscuotendo presso pubblico e critica?

Finora il film è stato accolto calorosamente. Dopo essere stati a Berlino a febbraio, siamo stati selezionati ad una quarantina di Festival in Europa, in Africa, ma anche in Iran e in Israele. Wallay È uscito nelle sale in Francia e in Costa d’Avorio e altri paesi sono in lista, tra questi il Burkina Faso, dove uscirà a Natale. La stampa è complessivamente molto favorevole.  Penso che proprio in questo periodo inquietante in cui si costruiscono muri e ci si rifugia in  pseudo-identità e comunitarismi insignificanti il film risuoni in maniera positiva.

In Burkina, e più precisamente a Bobo-Dioulasso, Lei è molto attivo con l’associazione Cinomade e l’Association de Soutien du Cinema au Burkina Faso, di cui è presidente. Ma in città tutte le sale cinematografiche sono chiuse da tempo. Può spiegarci le ragioni profonde?

Dopo un periodo sterile durato quindici anni assistiamo oggi per fortuna alla graduale riapertura delle sale cinematografiche nel continente. Niente può sostituire l’esperienza di visione collettiva offerta dalla sala. Il pubblico in Africa è lo stesso che altrove. Non è per mancanza d’interesse da parte del pubblico se le sale sono state chiuse, ma a causa di molteplici fattori, cui gli Stati Africani non hanno saputo o potuto rispondere in tempo: le politiche di aggiustamento strutturale del FMI, che costringevano la privatizzazione delle imprese pubbliche, la pirateria, l’arrivo in massa dei DVD e dei pacchetti di canali TV, la cattiva gestione delle sale, la corruzione e così via. Hanno portato numerosi Stati a vendere le loro sale anziché preservarle, risanando il settore e assicurando un futuro diverso per la distribuzione e il mercato del film in sala. Al giorno d’oggi tutto può coesistere nella stessa città: pirateria, video-club, cinema itineranti e sale cinematografiche. La Cina, d’altronde, ne è il miglior esempio.

Com’è nato il progetto di ridare vita allo storico Ciné Guimbi, la prima sala a prendere di nuovo vita nella zona? Quanto è risultato importante il raccontarsi attraverso le immagini e i social network, in assoluta trasparenza e raggiungendo così un pubblico numerosissimo?

Questo progetto è nato da una grossa frustrazione: com’è possibile che in una città come Bobo-Dioulasso che conta più di un milione di abitanti non ci sia una sola sala cinematografica aperta? Nel 2012 con Sali, mia moglie, ci siamo messi ad immaginare una sala che fosse allo stesso tempo moderna, aperta al grande pubblico, di qualità e popolare. Abbiamo fatto il tour delle vecchie sale e l’unica a non essere stata venduta e trasformata in un’impresa era Ciné Guimbi, aperta nel 1956 e chiusa nel 2005. I social network sono alla base della nostra comunicazione attorno al progetto. Non avremmo potuto portare avanti questa battaglia appena dieci anni fa. Ma non è finita qui: ora più che mai abbiamo bisogno di sostegno per aprire la piccola sala (174 posti, un bar e degli uffici) nei primi mesi del 2018. Tutti possono partecipare al cantiere! (www.cineguimbi.org)

A quale progetto si dedicherà dopo l’uscita di Wallay?

Al momento sono in viaggio col mio film e mi occupo della raccolta fondi per Ciné Guimbi, di qualche film prodotto con Les Filmes du Djabadjah e scrivo il mio prossimo film, ma è ancora un po’ presto per parlarne.

Ricordiamo che a breve il film inizierà un tour per l’Italia.

Intervista di Chiara Zanini

Traduzione di Cristina Abdel Mallak

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