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Intervista a Gus Van Sant: la passione per il cinema e il fascino della serialità

In occasione dell’inaugurazione della mostra Gus Van Sant – Icone (6 ottobre 2016 – 9 gennaio 2017), allestita dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, abbiamo fatto quattro chiacchere con il grande regista americano (presente nel capoluogo piemontese per l’inaugurazione della mostra). Ecco le sue parole.

Com’è nato l’amore per il cinema?

Diciamo che ho seguito un cliché: come credo sia accaduto a molti, durante un corso un insegnante ci ha fatto vedere per molte volte Quarto potere, poiché il budget a disposizione  non era molto alto e non c’era una gran varietà di titoli proiettati. Fu per me una folgorazione e lo rividi almeno altre dieci volte. Sempre nello stesso percorso di studi, però, ci fecero vedere anche diversi film sperimentali canadesi.

Come vede il mondo delle serie TV, a fronte delle sue esperienze passate (Boss del 2011 e The Devil You Know del 2015) e future (When We Rise in uscita nel 2017) in veste di produttore?

Le serie, soprattutto negli ultimi anni, sono diventate il mezzo di espressione preferito di tutti quei registi che si sentivano insoddisfatti delle esigenze delle major, le quali tendono sempre a privilegiare prodotti incentrati soprattutto sulla spettacolarizzazione della storia. E’ così maturata una certa frustrazione tra gli autori che, invece, volevano realizzare opere che andassero più in profondità sotto l’aspetto drammatico e della profondità della caratterizzazione dei personaggi. Il format televisivo risulta perfettamente adeguato per questo scopo anche grazie al maggiore tempo disponibile (non si è limitati dalla durata). Netflix è in un certo senso una realtà pioniera nel raccogliere grandi nomi “insoddisfatti” del cinema per poi far realizzare loro serie di successo. Anche HBO ha avuto un ruolo molto importante, basti pensare a Fincher e House of Cards.

Uno dei tanti motivi di fascino di Belli e dannati è la presenza di River Phoenix: che ricordo ha dell’attore?

River Phoenix è stato un grandissimo attore dotato di uno straordinario talento. Dopo Belli e dannati, voleva partecipare a un progetto cinematografico su Andy Warhol, interpretando proprio la figura del grande artista della Pop Art. Riusciva a identificarsi perfettamente con l’ambiente dei ragazzi di strada e con la realtà più marginale e difficile, anche grazie alla sua non facile esperienza personale: il padre, infatti, vestiva i cinque figli con abiti sgargianti e kitsch e li faceva suonare e cantare per strada in spettacoli improvvisati, con l’obiettivo di racimolare denaro. In Belli e dannati era molto evidente la contrapposizione tra la preparazione rifinita da attore teatrale di Keanu Reeves e la recitazione istintiva di Phoenix. Per prepararsi alla parte, Reeves si è documentato molto sull’ambiente underground della prostituzione maschile, leggendo anche diversi libri; Phoenix dopo aver letto una pagina ha abbandonato i libri e si è affidato solo alla propria indole naturale.

Nel 1975 ha avuto modo di incontrare Pier Paolo Pasolini: qual è stato il suo rapporto con lui?

Lo incontrai a Roma, quando feci una visita nella capitale italiana insieme a un gruppo di studenti che mi ha permesso di entrare in contatto con diversi registi dell’epoca,e tra questi c’era anche Pasolini. Aveva appena finito di girare Salò, ed ebbi la fortuna di andare a casa sua: all’epoca abitava nella zona nord di Roma, in un antica dimora elegante ma fatiscente, che mi ha colpito perché era arredata in maniera molto moderna. Abbiamo avuto un incontro molto confidenziale, tipo una chiacchierata a tavola. Gli spiegai che il mio desiderio era quello di emulare la letteratura trasferendola in un linguaggio cinematografico, ma lui non capì bene cosa intendessi e non mi parve entusiasta del mio approccio. Ci rimasi molto male perché non mi aspettavo una reazione simile, tant’è che quasi , a quel punto, non mi sentivo più nemmeno degno di pensare di fare cinema.

Come si inserisce l’aspetto politico nel suo cinema, soprattutto relazionato al tema dell’omosessualità?

All’inizio della mia carriera non c’è mai stato un fondamento politico nel mio cinema, forse successivamente sì, è diventato un aspetto a volte presente. Il mio tipo di indagine è sicuramente più romantica, se dovessi definire il mio cinema direi che è romantico, anche in Milk che all’apparenza è il mio film più impegnato. Milk inizialmente doveva essere diretto da Oliver Stone molti anni prima, che però si è tirato indietro perché non voleva realizzare un altro film in cui il protagonista andava incontro a una tragica fine come successe nel suo JFK. L’interprete principale doveva essere Robin Williams. Io mi sono trovato coinvolto nel progetto dopo questo cambiamento. Il caso trattato lo conoscevo bene, mi documentai molto anche proprio a San Francisco. La mia idea iniziale era quella di evocare solamente la figura di Milk senza mostrarlo esplicitamente sullo schermo, poi però il progetto ha assunto la forma che conosciamo.

Cosa l’ha spinta a girare il remake di un capolavoro “intoccabile” come Psyco?

Il progetto nasce più che altro come reazione verso la tendenza che hanno i capi delle major di fare i sequel fino a spremere i film soprattutto per motivi economici (come nel caso della serie di James Bond). Quello che accade normalmente, secondo le dinamiche consolidate delle grandi produzioni hollywoodiane, è che molti registi vengono periodicamente convocati dagli executive producers e si propone loro un progetto che va in questa direzione. Dopo Drugstore Cowboy mi convocarono e proposi loro di girare il remake shot-by-shot di Psyco, una idea che avevo già da un po’ nella testa. A me non piace la tecnica classica del remake, in cui solitamente si cambia qualcosa dell’originale aggiungendo o modificando qualche scena. Anche perché spesso questo cambiamento riguarda il finale che, soprattutto dopo gli anni ’90, si tende sempre più a vedere solo come happy ending. La mia idea fu ripetutamente bocciata e non venni preso in considerazione. Dopo il successo al botteghino di Will Hunting – Genio ribelle i capi della Universal accettarono.

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