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Intervista a Ulrich Seidl: "Il mio scopo è la rappresentazione del reale"

Documentarista e regista di film di finzione, Ulrich Seidl è uno dei più importanti (e discussi) autori del panorama cinematografico contemporaneo. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua presenza al Filmmaker International Film Festival di Milano (25 novembre – 4 dicembre), dove ha presentato il suo ultimo lungometraggio Safari e due opere giovanili restaurate, Der Ball (Austria, 1982, 16mm, 50’) e Einsvierzig (Austria, 1980, 16mm, 16’).

Mr. Seidl, il fulcro della sua ricerca artistica è il documentario: quanto questa cifra stilistica influenza i suoi lavori di finzione? Come cambia il suo approccio, se cambia, tra fiction e doc?

Fin dall’inizio del mio percorso artistico ho pensato al documentario come forma espressiva più congeniale alla mia poetica, anche se ho sempre introdotto elementi di finzione. Diciamo che il mio modello di riferimento prevede la commistione di entrambe le forme, tenendo sempre ben presente che ciò che a me interessa è la realtà. Il mio scopo non è riprodurre ma rappresentare il vero carattere del reale, sia che lo faccia con la fiction, sia che lo faccia con il documentario puro, in cui rappresento quello che ritengo sia vero, sempre attraverso però il mio sguardo. Il film di finzione, per me, si origina dal documentario: il vantaggio è una maggiore libertà di scelta delle storie e dei soggetti. Nella mia mente questi due aspetti sono molto vicini. Le faccio un esempio concreto per capire quando i due ambiti si influenzino l’un l’altro: il mio documentario Gesù, tu sai (Jesus, Du weisst, 2003) è ispirato alla Madonna Pellegrina che opera le conversioni. E la stessa ispirazione ritorna nel mio film di finzione Paradise: Faith (Paradies: Glaube, 2012).

Nelle sue opere è evidente il contrasto tra il rigore formale e le anomalie (fisiche e comportamentali) dei suoi personaggi: è uno strumento per far emergere le contraddizioni della società? Dal punto di vista stilistico, quali sono i suoi modelli di riferimento?

Ci tengo a prendere le distanze dal concetto di “anomalia” riferito ai miei personaggi. I protagonisti dei miei film non stanno nelle mie opere per essere disprezzati, derisi o condannati dallo spettatore, sarebbe una cosa davvero deprecabile. Rappresentano semplicemente la società e di conseguenza, anche il pubblico di fronte allo schermo. Molti spettatori sono turbati o addirittura sconvolti da quello che vedono perché scatta un processo di identificazione con loro. Detto questo, certo, esiste una relazione tra la veridicità del personaggio e la composizione dell’inquadratura, totalmente artificiale. Il contrasto che mi interessa è questo, tra ciò che è vero (che riguarda gli uomini) e ciò che è costruito (che riguarda gli ambienti entro cui si muovono). Per quanto riguarda i modelli di riferimento, posso dire che qualsiasi artista è influenzato, in misura più o meno evidente, da tutto ciò che è stato realizzato prima e dai lavori di altri autori. In ambito cinematografico, se dovessi fare nomi, direi innanzitutto Jean Eustache, poi Pasolini, Tarkovskij e Werner Herzog. Nella fotografia una delle mie fonti di ispirazione sono i lavori di Diane Arbus. Ma sono solo un insieme di influenze che vivono le une accanto alle altre, non sono modelli.

In Paradise: Hope emerge una delicatezza a tratti inusuale per un autore generalmente diretto e crudo come lei nel rappresentare le miserie umane. Quali sono state le ragioni di questa scelta?

Non sono d’accordo con quanto ha detto nella domanda. Il mio punto di vista non è cambiato affatto in quel film rispetto a quanto avessi fatto nelle altre opere o a quanto ho fatto nelle opere successive. Il fatto che i protagonisti siano adolescenti può forse far pensare che io abbia avuto un occhio di riguardo nei loro confronti, ma non è stato così. Questo apparente sentimento di tenerezza è veicolato dalla loro giovane età, ma non era mia intenzione andare incontro a loro o metterli in una posizione “privilegiata”. Il mio approccio è lo stesso di quello che ho manifestato negli altri due film della trilogia (Paradise: Love, 2012; Paradise: Faith, 2012, N.d.A.).

La sua ultima opera, Safari, mira a una riflessione critica in particolare sul tema della caccia. Partendo da questo presupposto, allo spettatore non è risparmiata nessuna brutalità. Pensa di aver raggiunto un limite non oltrepassabile in termini di rappresentazione della violenza del quotidiano?

Mi viene decisamente difficile rispondere a questa domanda. Volevo che lo spettatore partecipasse nella maniera più diretta possibile a quello che accade nel mondo della caccia. Non ho fatto il film per rappresentare i cacciatori come persone cattive e da disprezzare, sarebbe assurdo un comportamento simile da parte mia.

Sulla base di quali esigenze valuta la materia da trattare nei suoi film?

Riguarda soprattutto il mio desiderio di tenere aperti gli occhi su ciò che mi circonda, la felicità (spesso sinistra) che coinvolge le persone e il male che gli uomini fanno e si fanno reciprocamente. Dopotutto, homo homini lupus.

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