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It: un confronto tra la miniserie del 1990 e il film del 2017

“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.”


C’è un bambino che corre dietro quella barchetta, si chiama Georgie Denbrough: la barchetta è un regalo di suo fratello Bill, il rivolo gonfio di pioggia sarà l’ultima cosa che vedrà il piccolo, prima di Pennywise. Poi, fu il buio. Ed è con questo terribile omicidio, ormai entrato nell’immaginario comune, che si apre IT, capolavoro letterario di Stephen King, come del resto accade con l’ultima trasposizione firmata Andy Muschietti, mentre Tommy Lee Wallace aveva lasciato agli spettatori una sequenza di respiro, comunque relativo visto che il film (una miniserie in due episodi realizzata per il piccolo schermo) si apriva con un’altro omicidio, questa volta la vittima è una bambina. Ed è in questa prima sequenza che già si notano le prime differenze: la versione del 1990 è molto più fedele al romanzo e infatti la sequenza è pressoché identica, e culmina con il braccio di Georgie amputato da Pennywise (Tim Curry) e con il successivo funerale del piccolo. Muschietti, invece, opta per una soluzione differente: innanzitutto il dialogo con Pennywise (Bill Skarsgård) è più ricco di dettagli – “Lo senti l’odore del circo, Georgie?” – ma è la conclusione a colpire, perché il clown parte da braccio, ma risucchia totalmente il bimbo nel tombino. La perplessità iniziale viene allontanata proseguendo nella pellicola, quando si comprende che la scelta di Muschietti è funzionale alla trama, in quanto Bill (Jaeden Lieberher) non smetterà mai di cercarlo, convinto che possa essere ancora da qualche parte, magari nei Barren, influenzando così le sue scelte durante il film e regalando alla creatura demoniaca la possibilità di giocare con la sua paura, con il suo più grande trauma.

Questo è uno dei temi su cui si fonda l’opera del Re, e che grazie al film di Muschietti riesce a venire meglio a galla rispetto a quanto fatto nel 1990 dove, forse per limiti imposti dal piccolo schermo e dal periodo storico, si è deciso di non osare, di non approfondire a sufficienza questo aspetto, invece fondamentale. Le fobie dei Perdenti sono solamente accennate, mentre ora fuoriescono in tutta la loro violenza latente, un terrore che è una cosa unica con la città di Derry, in cui sembra sia convogliato il Male, e tra tutti i mali quello che probabilmente è il peggiore: l’idifferenza. Nessuno si cura di quanto accade nella città, dove nonostante i peggiori crimini – che vedono il Henry Bowers, nel padre di Bev o nella madre ossessiva di Eddie la parte umana del demone – regna un immobilismo assoluto, come se la situazione fosse ormai accettata, in un velo di omertà che ormai pare essersi definitivamente calato su Derry. Dopotutto, “i veri mostri sono gli adulti”. E allora a chi tocca salvare la città?

“Non c’è bisogno di girarsi a guardare indietro per vedere quei bambini; parte della mente li vedrà per sempre, vivrà sempre con loro, li amerà sempre. Non sono necessariamente la parte migliore di noi, ma sono stati un tempo depositari di tutto ciò che saremmo potuti essere”


Il Club dei Perdenti: Bill – il fratello di Georgie – Ben Hanscom, Beverly Marsh, Richie Toziers, Eddie Kaspbrak, Stan Uris e Mike Hanlon. Ragazzini che, per un motivo o per l’altro, restano esclusi o emarginati, pieni di paure, di cui Pennywise si nutre. Ed è davvero notevole, in tal senso, la differenza tra la miniserie del 1990 e l’ultima trasposizione cinematografica. Va innanzitutto evidenziato come nel primo caso si cerchi di ricalcare il romanzo, con continui passaggi tra presente e passato, mentre Muschietti ha deciso di concentrare la prima parte della sua opera solo sui piccoli, ed è una scelta che ha premiato, perché gli attori sono credibili e talentuosi (benché, eccezion fatta per Jaeden Lieberher e il Finn Wolfhard di Stranger Things, fossero tutti esordienti), perché soprattutto per Beverly viene resa giustizia e perché le sequenze più leggere hanno il respiro delle pagine di Stand By Me, ossia di un romanzo di formazione in cui il fulcro sta nelle relazioni tra i protagonisti. It, infatti, è prima di tutto un’opera con cui King ha voluto parlare a ogni lettore, al bambino che giace in ognuno di noi, evidenziando quello che è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, con le paure che cambiano ma che non scompaiono. Mutano. Tornano. Come Pennywise.

Il pagliaccio danzante torna ogni 27 anni, la stessa distanza che c’è tra il 1990 e il 2017, ma a cambiare è il periodo in cui vengono ambientate le vicende. Più fedele al romanzo la prima versione, che va dal 1957/58 al 1984/85, riadattata l’opera di Muschietti, che ha deciso di immergere gli spettatori negli anni ’80, con lo scopo di narrare le vicende dei protagonisti adulti ai giorni nostri. Detto ciò, è dovuto lasciare in fondo il protagonista, quel pagliaccio che ha terrorizzato le generazioni a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 grazie al talento di Tim Curry e che ora trova in Bill Skarsgård una versione ancor più terrificante e spaventosa, inquietante nella sua costante presenza che aleggia sulla città e sui suoi abitanti, nessuno escluso. Certo, paragonare i due è difficile, sarebbe un’operazione simile a quanto fatto con il Joker di Jack Nicholson e quello di Heath Ledger: sono diversi, figli di epoche differenti e che trovano nel loro immaginario attuale, nella contingenza, il senso d’essere. Cosa spaventava negli anni ’80 ce l’ha raccontato. Ma cosa ci spaventa davvero, oggi?

“Allora vai senza perdere altro tempo, vai veloce mentre l’ultima luce si spegne, vattene da Derry, allontanati dal ricordo… ma non dal desiderio. Quello resta, tutto ciò che eravamo e tutto ciò che credevamo da bambini, tutto quello che brillava nei nostri occhi quando eravamo sperduti e il vento soffiava nella notte. Parti e cerca di continuare a sorridere. Trovati un po’ di rock and roll alla radio e vai verso tutta la vita che c’è con tutto il coraggio che riesci a trovare e tutta la fiducia che riesci ad alimentare. Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio.”

Lorenzo Bianchi

Maximal Interjector
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