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La forma dell'Oscar – Il nostro commento ai 90esimi Academy Awards

Quest’anno, quando sentite chiamare il vostro nome, non alzatevi subito. Dateci un minuto”: è ironizzando sulla gaffe compiuta l’anno scorso da Warren Beatty e Faye Dunaway nell’annunciare il miglior film (Moonlight e non La La Land), che Jimmy Kimmel ha dato il via alla sua conduzione della 90esima edizione degli Oscar, sul piano dell’intrattenimento e della spettacolarità una delle più fiacche e stanche degli ultimi anni. Tra incursioni promozionali in un cinema con hot dog giganti e intermezzi più noiosi e paludati del solito, per non parlare di un video In Memoriam (il filmato che racchiude professionisti e grandi nomi dello spettacolo che ci hanno lasciato nell’ultimo anno) insolitamente frettoloso e stringato, con tante dimenticanze macroscopiche, c’è stato davvero poco di cui godere. La cerimonia è anche andata in archivio prima del solito, intorno alle sei meno un quarto del mattino, e il piglio brevilineo l’ha fatta da padrone: Kimmel ha perfino offerto una moto d’acqua a chi avesse fatto il discorso più conciso, andata poi a Mark Bridges, costumista de Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson.

L’host non è stato in grado di proporre stoccate acide o divertenti nella prima edizione post-Weinstein (il produttore è stato escluso dall’Academy), probabilmente succube della necessità di non banalizzare le battaglie culturali avviate con fatica dal movimento #MeToo e da Time’s Up. Si è limitato a gag guardinghe ed elementari, a cominciare dal monologo d’apertura, paralizzato dall’esigenza di non scivolare su possibili bucce di banana. Gli indici di gradimento e di ascolto non a caso sono bassissimi, fanno segnare un picco negativo siderale (addirittura il 16% in meno dello scorso anno) ed è un peccato che questa cornice non all’altezza sia coincisa con una delle edizioni qualitativamente più ricca di film significativi, se si passano in rassegna le ultime annate.

Tutto è andato secondo le previsioni della vigilia: il grande vincitore è ovviamente Guillermo Del Toro con La forma dell’acqua (memore dell’errore del 2017, il simpaticissimo Guillermo si è premurato di fare il double check della busta in mano a Beatty), vincitore di quattro statuette (miglior film, regia, scenografia e colonna sonora): il film del regista de Il labirinto del fauno, quarto messicano degli ultimi cinque anni a vincere come miglior regista, è un fantasy romantico sulla storia d’amore tra una donna delle pulizie e un mostro marino, con dalla sua una semplicità, una purezza e un cuore cinefilo dal battito pulsante e innegabile. Tutte prerogative che lo rendevano un candidato per forza di cosa fortissimo e perfino ideale, in virtù di un’intrinseca capacità di mettere d’accordo in maniera ecumenica (il Festival di Venezia, ancora una volta, ci aveva visto giusto e The Shape of Water di Del Toro, che ha ringraziato Spielberg e Douglas Sirk, per rimanere in tema di cinefilia incandescente e di melodramma, è il primo film in assoluto a cumulare Leone d’oro e Oscar al miglior film).

Guillermo del Toro, winner of the awards for best director and best picture for “The Shape of Water,” poses in the press room at the Oscars on Sunday, March 4, 2018, at the Dolby Theatre in Los Angeles. (Photo by Jordan Strauss/Invision/AP)

Questa ricerca della classicità ristoratrice, appagante e soddisfacente, sempre evolutiva e lontana da turbamenti (il film Del Toro ibrida sessualità e fiaba, Guerra Fredda e innamoramenti formali piuttosto retrò), è dopotutto quanto di più tipico degli Oscar e del pensiero che portano avanti, per cui non c’è da stupirsi se opere che spostano più in là l’asticella del linguaggio cinematografico come Il filo nascosto, Dunkirk (tre Oscar tecnici: sonoro, montaggio, montaggio sonoro) e l’idillio mélo, adolescenziale e sessuale di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome, debbano accontentarsi di premi magari importanti ma mai del bottino pieno (sarebbe stucchevole e fuori dal mondo pretendere qualcosa di diverso, in questa sede).

Altri buoni film, usciti complessivamente più ridimensionati, si sono spartiti la posta: Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha portato a casa gli Oscar agli interpreti Frances McDormand, che ha chiamato a raccolta donne e minoranze nell’acceptance speech più vibrante e carico di pathos della nottata (virale l’hashtag #InclusionRider), e Sam Rockwell, che ha dedicato il premio a Philip Seymour Hoffman. Gary Oldman ha ritirato il suo meritato Oscar per l’interpretazione di Winston Churchill ne L’ora più buia, ruolo all’insegna di quel mimetismo estremo che piace tanto all’Academy, e detto alla mamma di portarsi avanti preparando il bollitore del té per quando sarebbe tornato a casa con un Oscar, mentre Alison Janney, miglior non protagonista per I, Tonya, ha ringraziato di fatto se stessa attirando ammirazione e approvazione.

Lady Bird di Greta Gerwig e The Post di Steven Spielberg sono rimasti a bocca asciutta, ma è stata anche la serata delle prime volte: ha scaldato il cuore di molto l’emozione del campione di Los Angeles Lakers Kobe Bryant nel ritirare l’Oscar per il miglior corto d’animazione Dear Basketball, ma si registrano anche il primo film cileno e il primo film con una protagonista transgender a vincere l’Oscar come miglior film straniero (Una donna fantastica di Lelio con Daniela Vega, strameritato), il primo Oscar alla sceneggiatura originale a un afroamericano (Jordan Peele per Scappa – Get Out, incubo tardo-obamiano che ha battuto a sorpresa i manifesti), il primo asiatico Oscar per trucco e parrucca (Kazuhiro Tsuji per L’ora più buia), il primo, sospirato Oscar a Roger Deakins per Blade Runner 2049 (dopo 13 nomination andate a vuoto), il primo Oscar di Netflix (il documentario Icarus) e il premiato più anziano di sempre, l’89enne James Ivory, presentatosi con una camicia con stampato il volto di Timothée Chalamet. Ivory, che con la sua giovinezza di spirito ha incantato la platea, ha ringraziato Luca Guadagnino “per la sua sensibilità di regista” e riportato in Italia un’Oscar che ci mancava dal 1987, quando l’aveva vinto, guarda caso, uno dei massimi ispiratori del film di Guadagnino: Bernardo Bertolucci con L’ultimo imperatore.

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