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Con quella faccia un po' così: perché Harry Dean Stanton è stato uno dei più grandi caratteristi di sempre

È stato un caratterista, Harry Dean Stanton, senza dubbio. Ma dei caratteristi probabilmente il più iconico e indimenticabile, proprio perché, come ebbe a dire il mitico Roger Ebert apparentandolo a un altro eterno comprimario, «nessuno film con Harry Dean Stanton o M. Emmet Walsh sarà mai un fiasco».

 

Con quella faccia un po’ così, direbbe il poeta, Harry Dean Stanton (all’ultimo Locarno Festival era passato quello che a questo punto diventa il suo testamento, Lucky) ha saputo incarnare in maniera mirabile e laconica, malinconica e stropicciata, l’eterno stupore dell’America che guarda se stessa, con occhi magari grigi e mesti ma pur sempre docili, proprio come erano i suoi. Da una posizione defilata, certo, collaterale, anche. Perché è proprio dai margini e a partire dai dettagli più silenziosi e irrilevanti, muovendosi tra le righe ma spesso anche sotto le righe, che Stanton ha saputo ritagliarsi un posto di rilievo nella storia del cinema, una porzione tutta sua nel pantheon dei grandissimi.

 

Le collaborazioni con Milius, Peckinpah, Hellman e Coppola (ma non solo: la lista è lunghissima…) restituiscono, senza far rumore e com’era nel suo stile, la straordinarietà – in senso letterale – di una presenza silente eppure straziante. Un viso americano in maniera quintessenziale, come ha giustamente scritto l’Hollywood Reporter nel commemorarlo, al quale bastava mostrarsi per esistere sullo schermo. Quelle rughe, sempre più pronunciate, erano praterie vastissime e cariche di senso, nelle quali perdersi e ritrovarsi proprio come in un western senza meta.

 

Non è un caso che Wim Wenders lo abbia voluto, in una parte inizialmente prevista per Sam Shepard, come protagonista del suo Paris, Texas: quale alieno migliore di Harry Dean Stanton, interprete gigantesco travestito da attore qualunque, per interpretare lo sguardo straniato e obliquo del regista tedesco sull’America? Per altro in un film che resta ancora oggi una delle massime rappresentazioni dell’immaginario a stelle e strisce vista dagli occhi di un non americano, ma questo è un altro discorso, probabilmente troppo lungo per questa sede.

 

Per non parlare dell’uso, per forza di cose incredibile, che di lui ha fatto David Lynch nei suoi film, regalandogli in Una storia vera l’apparizione finale forse più memorabile di sempre per poi concedergli più di recente, nella terza stagione di Twin Peaks, un’altra incursione pazzesca nel suo immaginario e una sequenza tra le più importanti di tutta la nuova serie: una scena manco a dirlo di enorme spessore metafisico, dove addirittura si materializza Dio (o qualcosa di strettamente analogo). Perché dopotutto, al cospetto di quel volto, non esistono interrogativi o misteri che siano in grado di sovrastare la forza sommessa di una faccia che sapeva portare su di sé tutto il dolore, e dunque anche lo stupore, dello stare al mondo.

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