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Ready Player One: perché Spielberg è il regista giusto al momento giusto

“La condizione umana è uno schifo, quasi sempre.

I videogiochi sono l’unica cosa che

rende la vita sopportabile”.

(Almanacco di Anorak, Capitolo 91, versetti 1-2)

 

Si apre così il primo livello di Ready Player One, romanzo di Ernest Cline che a breve potremo vedere trasposto sul grande schermo, diretto da Steven Spielberg. E probabilmente non poteva esserci periodo (e, soprattutto, regista) migliore per trasformare le pagine del romanzo in un’opera rischiosa, in quanto il passo tra il capolavoro assoluto e un’occasione gettata al vento potrebbe essere davvero breve. Nerd sin dalla scelta del nome del protagonista – Wade Watts, con le iniziali identiche di nome e cognome come diversi supereroi Marvel, tra cui spiccano Peter Parker, Bruce Banner, Jessica Jones e Matt Murdock – l’intreccio parla di una società futura in cui la Terra è ormai ridotta in stato di forte emergenza e l’unica via di uscita dal mondo reale è OASIS, una realtà virtuale ideata da James Halliday a cui è possibile accedere con visiore e guanti aptici, creando un avatar. Alla morte di Halliday, si scopre che il programmatore ha inserito in OASIS un Easter Egg, e chi riuscirà a trovarlo erediterà tutto il suo patrimonio. Un soggetto semplice, che infatti non costituisce il fulcro su cui porre l’attenzione, che invece è richiesta per riconoscere tutti i riferimenti più o meno espliciti alla cultura anni ’80 in cui il lettore è completamente immerso, partendo dal fatto che il termine easter egg viene utilizzato per definire un elemento extradiegetico che viene inserito perché pochi possano riconoscerlo, e ciò avviene nei videogiochi e nei film, soprattutto. Una citazione, per pochi, insomma. Ed è questo il primo elemento chiave, per cui è oggi il momento giusto per portare nelle sale un romanzo pubblicato nel 2010: produzioni come The Big Bang Theory e Stranger Things hanno, di fatto, riportato alla ribalta la cultura anni ’80, il gusto della citazione e del riferimento di nicchia, che ora apparentemente è divenuto di massa, ma che, se si va oltre la superficie, rimane ancora una questione per pochi veri appassionati. L’abuso del termine nerd, che ha trasformato gli emarginati geek di un tempo (anni ’80 e ’90 soprattutto) in una delle attuali mode, ha avuto comunque l’effetto positivo di rivegliare la curiosità delle generazioni attuali verso un mondo di fantascienza e immaginazione che ha visto negli 80s uno dei suoi periodi di massimo splendore e che tramite le pagine di Cline rivive in tutta la sua meraviglia, a tratti ingenua, ma forse per questo così affascinante. Ma la ricerca dell’easter egg è un pretesto, un fil rouge sul quale scorre una trama parallela fatta di crescita personale, di relazioni, di sentimenti e di amicizia, di ricerca in primo luogo di qualcosa nascosto nell’intimo del protagonista prima che dietro a una delle tre porte ideate da Halliday: questa è la vera storia di Player One, un romanzo che parla di attualità, di valori e di come a volte si debbano tradire per una giusta causa, ma anche di realtà virtuale e di apparenze, di avatar come fuga dal mondo reale e da sé stessi. Il passaggio dalle pagine del romanzo ad un film diretto da Steven Spielberg sembra dunque essere naturale, visto che il regista statunitense ha fatto di avventura e meraviglia due degli elementi chiave di una poetica inconfondibile, che sembra guardare la realtà con gli occhi grandi di un bambino affamato di conoscenza e di desiderio di nuove scoperte. Dal trailer i riferimenti presenti sono moltissimi, alcuni addirittura mancanti nel romanzo, e la vera quest è cercare di non presentare sul grande schermo un insieme di citazioni dietro cui nascondere la trama, cercando invece di elevare i riferimenti ridonando l’emozione delle pagine del libro che, a sua volta, un piccolo omaggio al regista lo ha comunque già regalato:

“Secondo me sei fatto” gli urlai. “Il regista di di Ladyhawke è Richard Donner, cazzo! I Goonies? Superman? Mi stai dicendo che uno come lui è penoso?” “Il discorso non cambierebbe neanche se l’avesse fatto Spielberg”.

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