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Roberto Benigni chiude col botto la Festa di Roma: "Sto pensando a un nuovo film"

Una carrellata infinita di aneddoti e rivelazioni più o meno note, narrate con l’energia contagiosa e l’affabulazione vulcanica che da sempre lo contraddistinguono: non poteva che essere un travolgente racconto orale, l’Incontro Ravvicinato che Roberto Benigni ha tenuto a battesimo in chiusura della Festa del Cinema di Roma, salutato da Antonio Monda come “gli immancabili fuochi d’artificio finali di una qualsiasi festa che si rispetti del Sud, lo stesso Sud dal quale io sono originario”. Benigni, il cui incontro era previsto intorno alla metà della Festa, ha dovuto rimandare causa improvviso invito a cena del presidente uscente degli Stati Uniti d’America Barack Obama, una richiesta alla quale non si poteva ovviamente dire di no. Ma al di là delle battute immancabili (“Stavo lì con Obama e a un certo punto si è intrufolato anche Matteo Renzi!”), Benigni è un fiume in piena di ricordi, considerazioni e “istantanee affettive”, se così ci si può permettere di definirle, sulla sua carriera e su tutti gli artisti nei quali si è imbattuto nel corso della sua vita, conoscendone molti da vicinissimo.

Roberto, Federico Fellini ti considerava una versione moderna di Pinocchio e ha speso per te parole davvero bellissime. 

Mi telefonò la prima volta di notte, intorno a mezzanotte, col suo solito modo di fare: “Ciao Robertino, sono Federico”. Dal 1980 in poi mi fece dei provini per ogni suo film, anche se poi mi prese soltanto per il suo ultimo lavoro, La voce della luna. Anche se non gli interessavo me li faceva fare lo stesso perché si divertiva un sacco, anche se poi mi liquidava dicendo di cercare una donna, un settantenne o chissà cos’altro. Aveva questa voce suadente, da mago, da monaca di clausura, che usava per ingabbiarti nel suo mistero. Allo stesso tempo però di faceva sentire una persona privilegiata all’interno della sua vita. Su Fellini c’è un’aneddotica sterminata e leggendaria, ma non ti portava mai al cuore delle cose, viaggiava sempre sulla periferia. Era stupefacente nel tramutare anche il dettaglio più ordinario e insignificante in qualcosa di estremamente poetico. Mi ha fatto sentire al centro del suo mondo e amava i clown più delle donne, forse. Sul set de La voce della luna mi chiamava Kim, come Kim Novak, come fossi una prima donna da proteggere e custodire. Da piccolo pensavo che il nome Fellini facesse parte della natura, delle cose del mondo. Tant’è che quando è morto pensavo fosse morto l’olio, qualcosa che non poteva morire. Fellini è come Kafka, Stravinskij, Picasso: forse non ha cambiato la storia del cinema, ma è stato di sicuro il più grande regista del Novecento, una delle vette delle arti di tutto il Novecento, come l’ha definito Milan Kundera tra l’altro. I suoi film insegnano l’apprendistato del mistero, che è cosa importante ma difficilissima.

Che ricordo hai dei suoi film?

Quando ho visto La dolce vita non ho avuto la sensazione che si trattasse di un Inferno travestito da Paradiso, ma proprio di un Inferno in terra. Quel film, per me che lo guardavo con gli occhi vergini di un ragazzo di paese, aveva la capacità di far sì che l’opera ti guardasse. Era un film che parlava di sé ma anche di tutti noi, sembrava che il film ci leggesse. Per me che avevo vissuto l’adolescenza disadorna delle campagne toscane, era come se Fellini mi dicesse che c’era un mondo intero là fuori, una vita imperdibile, che avrei dovuto raggiungere perché quella vita aspettava me e me soltanto.

Che rapporto avevi con lui?

Non mi sono mai abituato alla sua presenza. Gli stereotipi che non avesse sceneggiatura, che sono sempre sulla bocca di tutti, che rifacesse tutto al doppiaggio facendo dire i menù agli attori, io non li ho sperimentati sulla mia pelle. Mi dava un dattiloscritto ogni giorno, era uno sceneggiatore straordinario, tra i migliori sceneggiatori del mondo. Di ognuno prendeva sempre l’aspetto più poetico e immaginifico, sia di me, che ne La voce della luna rappresentato l’immaginazione, che di Villaggio, che invece era il vecchiume, l’altra faccia della medaglia. Il film è un vero e proprio testamento artistico, capace di parlare della nostra “società”, come si dice generalizzando con questa brutta parola, del rimbambimento collettivo in cui siamo tutti immersi, della volgarità del mondo di oggi.

È vero che Antonioni ti voleva per un film su San Francesco? E che Terrence Malick addirittura per interpretare il diavolo in un film su San Pietro?

Con Antonioni cambiava proprio il ritmo. Come con Bresson e con Ozu: è come se tu non sapessi guardare e loro ti insegnassero cosa vuol dire guardare davvero. Il ritorno a casa di Jeanne Moreau ne L’avventura è una scena incredibile. Antonioni lo invitai all’anteprima di Berlinguer ti voglio benema si addormentò e io lo sgridai! Con lui c’era Zavattini, che invece era un vulcano. Rivedemmo anche il film di Rossellini su San Francesco insieme e alla fine mi dispiacque molto che il progetto non andò in porto.

Con Malick invece ci siamo conosciuti alla Notte degli Oscar nel 1999, dove io ero nominato per La vita è bella e lui per La sottile linea rossaMi fecero notare che c’era questo signore con un enorme cappello da texano che mi salutava con la mano, come il violinista con Mastroianni in una scena di Ginger e FredCi siamo scambiati i numeri di telefono ed è venuto a trovarci a Roma con mia enorme sorpresa. Lui è cattolico, religiosissimo, ama molto Vincenzo Bellini e cita alcuni passi a memoria della Divina Commedia di Dante, in italiano peraltro. Voleva fare un film su San Pietro e aveva pensato a me per fare il diavolo! Anche questo progetto però non si fece, Terrence mi disse che era costosissimo, che presupponeva una ricostruzione storica imponente. Poi lui si è dirottato su altri progetti. Però magari si farà, siamo ancora in contatto! Chi può dirlo!

Veniamo a Massimo Troisi e a Non ci resta che piangere, dove avete collaborato. 

Avevamo anche in mente di fare un sequel. L’abbiamo fatto lui perché c’ero io e io perché c’era lui, per citare un saggio di Montaigne dove si parla dell’amicizia. Il nostro era un rapporto basato sull’allegria sconfinata, tra me e Massimo c’era un rapporto di amore vero e purissimo. L’arte è quella cosa dove sudi come un trapezista sulla corda, carico di tensione, ma poi ringrazi con un inchino, leggero come una piuma. Non bisogna dare a vedere nulla all’esterno, ma ci legava qualcosa di profondissimo. Eravamo due cialtroni su quel set, fu una cosa gaglioffa, non sapevamo dove andare: abbiamo riscritto la sceneggiatura quattro volte con autori diversi, fino all’ultimo giorno prima di girare. Eravamo davvero allo sbaraglio più totale, ma avevamo un comparto tecnico d’eccellenza: Giuseppe Rotunno, uno dei più grandi direttori della fotografia del pianeta, il montaggio di Nino Baragli, le musiche di Pino Donaggio. Il film è molto giocato sull’improvvisazione ma io a tal proposito ero assai titubante, perché per come la vedo io improvvisare può produrre picchi enormi ma anche cadute rovinose. A me, per rendere l’idea, serve una settimana buona per produrre una buona improvvisazione, anche se nel caso di me e Massimo eravamo letteralmente nudi l’uno di fronte all’altro. Lui sul set non voleva muovere la macchina, non gli piaceva. Tutte le inquadrature fisse le ha fatte lui, infatti, e tutte quelle dove la macchina da presa si muove un po’ invece sono mie.

Per rimanere a un’altra icona della napoletanità, cosa pensi di Totò?

Lui aveva questa faccia da rondone, da angelo pazzo, da bambino centenario. Dalla sua aveva un fattore linguistico unico che di sicuro ha contribuito a renderlo immortale, ma il suo volto era veramente un teschio, se si pensa a Totò le Mokò, sembra di vedere i morti dietro che ghignano. Totò era e resta un mistero, carico di segreti. I critici non si sono mai occupati davvero di lui ma dopotutto con Totò la componente mortifera era tale che davvero non potevi renderti conto di chi avevi davanti, era indecifrabile. Massimo era molto diverso da lui, ma anch’egli possedeva una certa fraternità con quel senso di morte. Era come se sentisse che la sua vita avrebbe avuto un termine inaspettato e questa cosa si avvertiva in ogni sua scelta, anche la più insignificante. E poi aveva quel ticchettio al cuore che veniva davvero voglia di abbracciarlo.

Che rapporto hai con Nicoletta Braschi, tua moglie e musa?

Per me la commedia senza una donna è come la vita a metà, se ripenso ad alcune commedie che ho fatto con Nicoletta, come Johnny Stecchino. Lei ha cambiato in profondità il mio cinema e col senno di poi posso dire che è stata una benedizione per me.

Stai davvero pensando a un nuovo film, come si vocifera in giro? 

Sì. E dovrà essere qualcosa di sconfinatamente allegro.

 

 

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