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È solo la fine del mondo: gli elaborati dei partecipanti al Workshop su Xavier Dolan

Al termine del workshop su Xavier Dolan che LongTake ha tenuto presso lo spazio BASE lo scorso dicembre, i partecipanti hanno analizzato alcune delle sequenze più importanti presenti nelle opere dell’autore canadese. Ecco di seguito i contributi di chi ha voluto partecipare: 

 

VALENTINA BARTALESI
Sequenza: Les Amours imaginaires – “Pass This On” (The Knife)

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Les Amours imaginaires è forse la pellicola più “estetizzante” prodotta da Xavier Dolan. Pur trattandosi del suo secondo lungometraggio, in esso compaiono già chiaramente le tematiche che verranno poi riprese e portate a piena maturazione nei suoi film successivi. Sotto lo sguardo cristallino, esigente, “adolescenziale” ed adulto insieme del regista, scorrono temi come quello del soggetto/oggetto che osserva e che a sua volta viene osservato in uno spazio saturo di sguardi unilaterali, spesso portatori di pensieri incomunicabili; quello del colore e della musica che, fatti fondere poeticamente da Dolan, divengono generatori di atmosfere volte ad approfondire e a complicare la narrazione dialogica. Infine il tema della conoscenza e dell’attenzione rivolta ad una tradizione colta, universale, non solo cinematografica ma più generalmente artistica, come si vedrà di seguito.
Commentando la sequenza accompagnata dalle note di “Pass This On” dei The Knife, queste caratteristiche emergono distintamente. Nicolas, si trova alla propria festa di compleanno insieme a Francis e a Marie, due amici di vecchia data resi rivali (non dichiarati) dall’ infatuazione totalizzante che sperimentano per lui. E’ un triangolo amoroso, altra situazione sentimentale particolarmente cara a Dolan. A seguito di un breve e pungente dialogo, Marie e Francis sono ripresi singolarmente in primo piano, immersi in una luce artificiale rossastra. I loro occhi fissano il centro della sala, dove Nicolas appare rapito in una danza cadenzata con la madre Désirée. Gli altri invitati scompaiono ai lati dell’inquadratura. Da questo momento in avanti, per tutta la durata della canzone, la narrazione viene interrotta da alcuni frames extradiegetici in cui il regista rivela le visioni che si susseguono in modo fulmineo nella mente dei due protagonisti. La musica elettronica, martellante e coinvolgente, le luci psichedeliche che rendono il ritmo di ripresa ulteriormente sincompato, ipnotico, conducono lo spettatore in una dimensione differente rispetto a quella iniziale, governata da una propria temporalità. Lo spazio appare fagocitato dai suoni e dal movimento, la danza liberatoria e catartica diviene protagonista. Anche la luce subisce un cambiamento; l’oscurità della stanza acuisce la dimensione psichica e non solo materiale del momento.
Nicolas, il fulcro della scena, diviene l’oggetto dello sguardo e del desiderio sia fisico che mentale di Francis e Marie, ma non solo. Attraverso la sua figura infatti, il processo di “oggettizzazione” della persona assurge ad uno stadio di tale idealità, da identificare la persona stessa con l’oggetto d’arte. Nicolas è a tutti gli effetti esposto come un feticcio iconico, fa mostra di sé e non si cura delle considerazioni che gli astanti elaborano su di lui. Vi è dunque da parte di Dolan (e dei suoi personaggi) un culto (che assume a tratti i contorni della devozione) per una bellezza asettica, interpretata in termini quasi mitici, che trova diretta espressione nel sedimento di immagini lasciateci dalla classicità, dal Rinascimento e dal Novecento. Nicolas, il biondo e ricciuto Adone della tradizione classica è, agli occhi di Marie, una copia viva e fremente del David di Michelangelo, simbolo universale di bellezza e perfezione. Dolan esaspera tale analogia andando a sovrapporre all’immagine del ragazzo le membra del David, praticando una sorta di collage onirico di grande purezza e formalmente impeccabile. D’altro canto, Francis pare riflettere su quel corpo splendido, definito androgino poche battute prima, il proprio orientamento sessuale: questa volta ai gesti di Nicolas vengono accostati i disegni di Jean Cocteau inerenti la scoperta dell’omosessualità. Il confronto è più delicato, l’imperturbabilità dell’elemento greco pare incrinarsi sotto la forte carica autobiografica. Il triangolo giunge nuovamente ad un perfetto equilibrio: il soggetto-oggetto esposto nella sua splendente noncuranza, i due soggetti desideranti, vicini fisicamente ma perduti nella propria psiche. La musica rigenerante e la danza apotropaica conferiscono alla scena una sacralità pop e patinata davvero inedita. Terminata la canzone si esaurisce anche l’aurea mitica indotta dal regista e i personaggi possono fare ritorno in una dimensione dominata dal non detto e da una tensione taciuta.

VIOLA FRANCHINI
Laurence Anyways – L’ultimo incontro tra Laurence e Fred

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Montreal, 1999.
Sono trascorsi ormai dieci anni dalla presa di coscienza da parte di Laurence Alia di voler proseguire la propria vita nel corpo di una donna, tre dall’ultimo incontro con Fred e da quella loro folle fuga d’amore sotto una suggestiva pioggia di vestiti variopinti.
Siamo vicini alle battute conclusive del film, così come di una lunga, travolgente, tormentata, unica storia d’amore.
Laurence e Fred si danno appuntamento in un locale buio, angusto, simile a un cunicolo flebilmente illuminato da una luce gelida e anonima: forse un’allegoria di quel che resta della loro relazione, un tunnel in cui si vuole ostinatamente conservare il dolce e fragile ricordo del passato, ma dal quale è ora necessario scegliere se fuggire una volta per tutte o lasciarsi nuovamente risucchiare.
Immediatamente si avverte fra i due una sorta di velato imbarazzo, contemperato tuttavia dall’eco di quell’intesa che un tempo li aveva visti tanto uniti e complici. Ma pur sempre di eco si tratta: ben presto il latente disagio esplode, dando libero sfogo alla claustrofobica insofferenza reciproca e all’amara presa di coscienza dell’impossibilità di comprendersi (forse, nonostante la tenacia di un amore incondizionato e mai sopito, la più profonda e completa cognizione dell’altro era qualcosa che sin dal principio non poteva essere loro concesso).
Ecco dunque che, così come tre anni prima, il ricongiungimento fra Laurence e Fred trova il proprio epilogo in una fuga, questa volta però l’uno dall’altra: Fred si assenta per recarsi alla toilette, Laurence la scruta allontanarsi, già malinconicamente consapevole del fatto che quello sguardo non ricambiato sarà probabilmente l’ultimo che potrà dedicarle; quindi si alza dal bancone e abbandona il locale dall’ingresso principale. Contemporaneamente, quasi soffocando nell’affannosa ricerca di una via d’uscita, Fred spalanca la porta sul retro. A travolgere entrambi è un’esplosione di luce e musica, a sospingerli via un vento impetuoso che porta con sé non più un arcobaleno di vestiti variopinti, bensì un turbinio di foglie secche. L’ennesima dimostrazione dell’innato talento di Dolan nel sublimare il significato più autentico dell’immagine attraverso un accompagnamento musicale tanto sensibile quanto impeccabilmente aderente alla sfera visiva, in una perfetta e quasi simbiotica corrispondenza fra figura, concetto e sentimento: ogni elemento della sequenza profuma e vibra del più struggente e dolceamaro addio, ogni suo dettaglio accarezza il malinconico ricordo di un amore ormai avvizzito e autodistruttivo, ma che un tempo significò la vita.
Un amore che sia Laurence che Fred decidono ora di lasciarsi definitivamente alle spalle, abbandonandosi a cammini divergenti sulla spinta di un vento che soffia via il passato e sussurra al futuro. Eppure entrambi volgono lo sguardo all’indietro, forse per accertarsi di non essere visti o inseguiti dall’altro, forse nella tenera ed istintiva speranza di poterlo scorgere un’ultima volta.

IRENE FRAU
Il commiato è la fine di un mondo

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Il corridoio si tinge di un esacerbato arancione, caldo e dorato. Dall’orologio a cucù prende anima l’uccellino che libra, vortica e sbanda nell’andito, inseguendo un percorso insensato sotto gli occhi attoniti di Louis, il protagonista. Quell’uccellino ha preso una vita che non controlla costringendolo a vagare, illuso di essere libero fino alla fine del suo tempo. Stramazza sul pavimento dell’ingresso e il suo petto gonfio si svuota dell’ultimo respiro. Louis sorride, ci dà le spalle e infila la porta contro la luce calda del tramonto estivo. Termina con questa immagine l’ultimo lavoro di Xavier Dolan, Juste la fin du monde.
Il tempo cinematografico, quello di qualsiasi film, ha un inizio e una fine che nella poetica di Dolan possono coincidere in un’illusoria eternità del racconto. Come se un film fosse un micro universo, una monade con le sue regole e la sua temporalità. Ora in È solo la fine del mondo l’azione si avvia con lo scoccare rigido delle lancette dell’orologio a cucù che segnano l’inizio dell’incontro, del pranzo e del commiato.
Il tempo della vita di Louis sta per scadere. Louis confessa nell’incipit del film di cedere all’illusione di poter essere padrone della propria esistenza, tornare indietro sui suoi passi, parlare finalmente con la sua famiglia. Non c’è modo per rimediare a tutti quegli anni di assenza. C’è stato un tempo in cui la famiglia era unita poi qualcosa, inevitabilmente, si è rotto: l’incomprensione è data dall’essere fuori tempo. Ora non si dialoga, si rovesciano addosso sentimenti contorti e indefiniti.
Il commiato è il gesto dell’esodo scelto come emblema di una chiusura che tarda ad arrivare. Un pranzo infinito. “Quando glielo dirai?”. Scocca l’ora e si rizzano le lancette. Il passerotto vive e muore in quell’attimo arancione. Quando Louis oltrepassa l’uscio di casa cominciano le prime note di “Natural Blues” (Moby): “Don’t nobody knows my troubles but God”. Nessuno ha compreso la fatica di Louis ed è stata dura vedere il proprio fratello morire: “My soul got happy and stayed all day | Went in the room didn’t stay long Looked on the bed and brother was dead”.

CAMILLA GUENDALINA GANDINI
Les amours imaginaires, clip “Pass This On”

Francis e Maria, amici di lunga data ed entrambi innamorati dello stesso ragazzo, Nicolas, sono alla festa di compleanno di quest’ultimo; tra i due, tuttavia, si è innescata già da tempo una non trascurabile rivalità, ampiamente segnalata dalle precedenti sequenze che scorrono sulle note di “Bang Bang” cantata da Dalida. La gara iniziata tra prove di seduzione, subdoli sabotaggi e corsa all’acquisto del regalo di compleanno migliore trova pieno compimento nell’estasi a cui si abbandonano i due amici/nemici, entrambi seduti sul divano di casa di Nicolas che, noncurante di chi e cosa gli giri attorno, balla insieme alla madre sulle note di “Pass this on” dei The Knife. Come spesso capita nei film di Dolan, la scelta musicale, anche in questo caso, non è assolutamente casuale: la canzone è un dialogo in cui uno degli interlocutori palesa il proprio innamoramento per una persona che, incurante del fascino che suscita, sembra non rendersene conto; in effetti, la situazione descritta sembra calzare perfettamente con quanto sta succedendo nella stanza. Dopo un breve scambio di battute con l’immancabile punta di perfidia tra i due contendenti (è proprio questo il termine che più si addice a Francis e Maria, entrambi coinvolti in quello che ha tutte le carte in regola per essere considerato un duello), la macchina da presa comincia ad indietreggiare, allontanandosi dai volti dei due, fino a spostarsi sull’oggetto della contesa, Nicolas, che ondeggia a scatti sulle note della musica insieme alla madre Desiree, la quale, non casualmente, indossa una parrucca blu (come la giacca di Francis) e un vestito rosso (come quello di Maria), quasi a voler sommare nella sua figura i desideri repressi dei due che vorrebbero essere al centro della stanza, al posto di quella stessa donna nei confronti della quale nutrono, senza ombra di dubbio, una certa invidia (basti pensare al tono sprezzante con cui Maria all’inizio pronuncia il nome “Desiree” o all’appellativo “androide” utilizzato da Francis). A partire da questo punto la sequenza comincia ad assumere un tono decisamente visionario, dando spazio alle proiezioni mentali di Francis e Maria, sui volti dei quali la camera indugia a lungo, quasi fossero colti dalla nota sindrome di Stendhal di fronte alla visione estatica ed ipnotica, insieme, di Nicolas, il cui volto viene associato in un turbinio di sovrapposizioni di immagini al viso imperscrutabile di un Dio greco, al David di Michelangelo e ai disegni sulla scoperta dell’omosessualità di Jean Cocteau. La pulsione erotica si avverte chiara ed evidente grazie anche ai giochi di luce che falsano la percezione della realtà e trasportano il tutto in una dimensione quasi atemporale, tuttavia tale pulsione non trova una vera valvola di sfogo, rimane un lamento sordo (come quello del manifesto appeso alla parete della camera di Nicolas che vediamo nella scena immediatamente successiva a quella della festa) e lo scarto che si crea tra i desideri dei due amici e la mancata realizzazione di essi è ben evidenziato dal cambio di scena, tramite il quale si torna alla realtà, al mattino dopo la festa, in cui tutto appare avvolto da un’atmosfera di candida innocenza (muri bianchi, luce che invade le stanze, silenzio), l’esatto opposto della spirale ipnotica di sguardi e mal celate fascinazioni che aveva occupato la scena precedente.

PAOLO GUERRIERO
Mommy – Sequenza Colorblind

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Il potere espressivo della colonna sonora all’ interno di un film è inestimabile per la sua capacità di emozionare gli spettatori creando atmosfere indimenticabili ed enfatizzando le azioni e gli stati d’ animo dei protagonisti.
Molti cineasti si sono dimostrati in grado di fondere immagini e musica in perfetta sincronia conferendo un ritmo costante alle loro storie. Uno tra gli autori più apprezzati nel sovrapporre queste due forme d’ arte è sicuramente Baz Luhrmann, che della sua qualità nel puntare l’obiettivo della macchina da presa là dove la musica pone l’accento, ne ha fatto un elemento peculiare.
Vi sono poi registi che si servono delle note e del testo musicale con finalità narrative.
Nei film di Xavier Dolan, la musica diviene un elemento intangibile e fluido come un sogno infatti molte delle canzoni appartenenti alla colonna sonora delle sue opere hanno un potere inconscio e sembrano svelarci, ad un livello più profondo, l’umanità dei personaggi, avvicinandoci alla loro natura primigenia.
All’ interno del suo percorso produttivo ed artistico, una delle sequenze più emblematiche in questo senso è quella presente nel film Mommy, vincitore del Premio della Giuria alla 67° edizione del Festival di Cannes, dove viene mostrato il percorso del protagonista Steve (Antoine Olivier Pilon) verso il proprio supermercato di quartiere ed il suo successivo ritorno a casa, il tutto accompagnato dalle note e dal testo della canzone “Colorblind” dei Counting Crows.
Inizialmente, ciò che colpisce la nostra attenzione è proprio la musica dei Counting Crows ed il suo svelarsi come extradiegetica. Nonostante il protagonista stia ascoltando un brano, questa non proviene dall’ interno delle sue cuffie, ma funge da amplificazione drammatica e ciò viene confermato dalle gestualità di Steve, che non seguono il ritmo musicale di “Colorblind”.
Il testo di questa emozionante canzone racconta un disagio interiore, di quanto fortemente desideriamo che qualcuno ci trascini fuori da noi stessi, dalle nostre angosce e dalle nostre ferite: condizione che rispecchia perfettamente la natura del personaggio di Pilon. Steve è affetto dalla sindrome da deficit di attenzione ed iperattività e dopo la morte del padre, la madre Diane, non potendo accudirlo decise di affidarlo in una comunità di recupero. In seguito all’ ennesimo episodio di violenza all’ interno del centro la madre si è vista costretta a riportarlo a casa con sé.
La sequenza prosegue nel parcheggio del supermercato, dove Steve scarica la propria tensione e rabbia urlando “Who is your daddy? Who is your fucking daddy?” e facendo roteare un carrello della spesa prima di calciarlo violentemente. In questa scena, Dolan adegua la forma estetica al contenuto, nel raccontare questi convulsi gesti utilizza un linguaggio movimentato e vibrante come quello di una camera a mano che ruota attorno alle azioni di Steve. Qui le note di “Colorblind” divengono una celebrazione di una innocenza ormai quasi perduta.
Dopo aver chiesto una sigaretta a dei ragazzi il protagonista ritorna a casa con la spesa. Sul vialetto della sua abitazione le note della canzone dei Counting Crows diventano sempre più flebili, fino a scomparire.
Questa sequenza ha la particolarità di allontanarsi dagli stilemi più classici del linguaggio cinematografico, perseguendo un’estetica più similare a quella dei videoclip e connotata da una profonda sensibilità registica. Questo mi fa pensare che al centro di ogni artista vi è un luogo sacro dove tutte le regole vengono accantonate o deliberatamente dimenticate a favore delle sole scelte puramente istintive del cuore e dell’anima.

SIMONE PAGANI
Videoclip per College Boy – Indochine di Xavier Dolan

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Xavier Dolan nel 2013 sperimenterà la regia del suo primo videoclip, pur non essendo completamente digiuno in materia: molte scene dei suoi film infatti presentano questa soluzione, mostrandoci come il regista ne padroneggi l’estetica. Il videoclip accompagna perfettamente la canzone “College Boy” della rock band francese Indochine, canzone che tratta un tema particolarmente caro a Xavier: il bullismo. Il video musicale è girato in un asfissiante formato 1:1, una sorta di sperimentazione per il successivo Mommy. La scelta del formato è importante, non solo per il seguente lungometraggio, ma anche per la ricerca di quel clima claustrofobico che ritroveremo (anche se in diverso formato) in Tom à la ferme. Il College ci si presenta subito come un non-luogo, una prigione le cui sbarre di banalizzazione, omertà, indifferenza e mediocrità si palesano nelle figure parossistiche della famiglia, della gioventù bendata che “osserva” il mondo attraverso uno schermo e del rettore/preside custode dell’ordine – tragicomica imitazione di uno sceriffo di provincia americana con tanto di cappello da cowboy – che invita a tornare in classe, lo spettacolo è finito. Il protagonista del video, interpretato dal giovane Antoine Olivier Pilon (Lawrence Anyways, Mommy) subisce da parte dei compagni di classe un climax ascendente di violenza che terminerà in una crocifissione metaforica da cui si leverà solo per pronunciare l’unica battuta concessagli dal regista, un agghiacciante ed emblematico “merci” finale. Tutta la narrazione procede tra sfocature, ralenti e giochi di sguardi, elementi tipici del cinema di Dolan. Proprio come in Mommy il racconto pare ingannare noi e il protagonista con uno spiraglio di speranza: il canestro, la riscossa degli ultimi tipica di tanti teen movie. Una pallonata antisportiva sul viso, di fatto, fungerà da pietra tombale per ogni possibile speranza: non si scappa dalla follia del branco, non si fugge dalla cultura dei troll e dei bulli che non è estranea nemmeno agli ambienti della critica cinematografica, stando allo stesso Dolan. Il vissuto s’intreccia alla denuncia ripercorrendo la poetica del regista in sei minuti di video.

Chiara Pozzoli
Mommy

Mommy è il film della maturazione di Xavier Dolan, l’opera che da enfant prodige (o terrible) – epiteto da cui lo stesso regista ha più volte tentato di distaccarsi – lo ha fatto sbocciare, fino alla vittoria del Premio della Giuria a Cannes, in ex aequo con Jean-Luc Godard.
Da qui, a inizio 2015, è iniziata la mia visione della cinematografia di Dolan, un viaggio intenso ed emozionante, che marca un segno importante nella mia vita. Perché Dolan, lo si capisce già dopo le prime sequenze, o si ama o si odia.
Così, ben oltre la metà di Mommy, alle prime note di “Experience” di Ludovico Einaudi, ho capito che quello non sarebbe stato un film come gli altri.
Lo stesso Dolan ha affermato di essere partito proprio dall’ascolto di questa canzone per scrivere non soltanto la scena stessa, ma la sceneggiatura dell’intera opera.
“Experience” entra dolcemente nella sequenza, al secondo cambiamento dell’aspect ratio nel corso del film. Si tratta di una delle rare occasioni in cui Steve è sereno, liberandosi così della claustrofobica inquadratura 1:1. Steve, Diane e Kyla, infatti, si recano sulla spiaggia, a fare un picnic. Mentre Steve e Kyla si rincorrono e scherzano, Diane li osserva da lontano, fumando una sigaretta.
All’incalzare delle note di Einaudi, vediamo delinearsi un futuro sereno per Steve: il diploma, l’accettazione alla Juilliard, il fidanzamento, il matrimonio, la paternità.
In questi attimi di apparente felicità, in cui Steve realizza i propri sogni e quelli della madre, la straziante “Experience” lascia intendere allo spettatore che nulla di tutto ciò accadrà mai.
Si tratta infatti soltanto di un sogno: il pubblico è entrato nella mente di Diane, che spera per il figlio un finale diverso, consapevole che di lì a poco ricorrerà al suo ricovero coatto, secondo la legge S-14 esposta da Dolan all’apertura del film.
Il dolore di Diane viene percepito già dalle ultime note della canzone, durante le quali, lentamente, l’inquadratura si restringe nuovamente, riportando non soltanto lo spettatore, ma anche la stessa Diane, alla realtà, dalla quale non può più fuggire.
Seppur di fronte ad uno schermo, il pubblico è catapultato al suo interno, in una sequenza che lo strazia e lo ricuce, per poi devastarlo nuovamente, in attimi intrisi di amore e rabbia, di una speranza che si affievolisce all’arrivo di un realismo a cui non si può scampare.
In pochi minuti si riassume il cinema di Dolan, che va oltre l’estetica che gli viene spesso attribuita, un cinema caratterizzato da emozioni forti, travolgenti e inarrestabili, che, nel bene o nel male, lasciano il segno.

FRANCESCA SALA
J’ai tué ma mère e Mommmy: un chiasmo quasi perfetto

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“Si ama la propria madre quasi senza saperlo; e si avverte la profondità delle radici di tale amore solo al momento della separazione finale” – Guy de Maupassant
Inizia così il primo film di Xavier Dolan, con una dichiarazione d’intenti inequivocabile.
E come finisce?
Dopo averci mostrato il complesso rapporto fra una madre e suo figlio, pieno di incomprensioni, cattiveria e recriminazioni, Dolan ci riporta a un periodo in cui tutto era più semplice e felice e lo fa con un flashback legato all’infanzia del protagonista Hubert, come a dirci che quella gioia è sempre stata lì, anche attraverso tutti gli alti e bassi a cui abbiamo appena assistito, solo coperta dalle sovrastrutture che si accumulano, pian piano, mentre si cresce.
Ed è la stessa sensazione di pura allegria, di semplicità e di amore che ci accoglie all’inizio di Mommy, il fratello più piccolo (ma solo per data d’uscita) di J’ai tué ma mère.
La sequenza d’apertura è, infatti, estremamente simile a quella che chiude il film d’esordio del regista per svariati elementi: il formato ridotto, il focus sulla figura materna (interpretata in entrambi i casi da Anne Dorval), il fatto che tutti e due i momenti appartengano al passato.
Ma ciò che colpisce di più è la somiglianza dell’atmosfera che si respira: casalinga, rilassata, positiva, nulla a che vedere con ciò che è stato, nel caso del primo film, o ciò che verrà, nel caso di Mommy.
Lo spettatore sa che, in J’ai tué ma mère, pochi minuti prima dell’idilliaca sequenza finale, Chantale è esplosa in una scenata al telefono contro il direttore del collegio in cui alloggiava Hubert, accusandolo di “esserselo lasciato scappare”, e, davanti alle scene iniziali di Mommy, non può fare a meno di chiedersi se l’esplosione arriverà anche qui.
Dolan non delude e, dopo le positive immagini d’apertura, mette in scena un incidente d’auto che coinvolge Diane in prima persona: qui lo scoppio netto simboleggia il ritorno del figlio nella vita della madre, esattamente come la notizia telefonica della fuga di Hubert rappresenta un cambiamento inaspettato nella vita di Chantale, un tornare indietro a una situazione di instabilità, nociva e tossica allo stesso tempo.
Si può quindi pensare alla fine e all’inizio di questi due film come a un chiasmo che, per quanto imperfetto (nella pellicola d’esordio, infatti, l’esplosione al telefono e la sequenza del flashback non sono direttamente collegate come poi saranno in Mommy), ci dimostra che queste storie hanno una base comune, felice e debole, inadatta a reggere l’intensità di queste relazioni.
Una base che fa presagire il peggio allo spettatore, lasciato così a chiedersi: “Ma qual è il momento in cui tutto si è spezzato?”.

Viola Tofani

Nel 2013 Xavier Dolan, all’età di soli 24 anni, realizza per gli Indochine, band icona del rock Francese, il videoclip del singolo College Boy. È la prima volta che D utilizza il bianco e nero e la drammaticità che apporta alle immagini ma non la prima dove sceglierà il formato 1:1 per le sue inquadrature, formato col quale intende trasmettere oppressione, limiti, angoscia, lo stato mentale di chi si sente in trappola, come Lawrence (Lawrence Anyways 2012) nei panni di uomo piuttosto che di donna o come lo stato in cui, in Mommy (2014), si sentiranno Steve e la madre a causa della malattia mentale del protagonista, interpretato da Antoine Olivier Pilon, scelto nuovamente  da D dopo aver dimostrato il suo talento in questo videoclip. In College Boy il tema trattato è quello del bullismo (tema “caro” a D perché probabilmente ha vissuto in prima persona, durante l’adolescenza, delle violenze simili a causa della sua sessualità) e contiene quindi un forte messaggio sociale, reso dal regista con immagini molto forti, crude e violente; è un videoclip che tocca profondamente la sensibilità e la mente di chi lo guarda, ci fa tornare in mente le torture di American History X o alcune tra le scene più cruente dei film di Tarantino. Ció costerà a D non pochi problemi con la critica e con la censura francese, pur essendo ovvia la volontà del regista di denunciare un tale fenomeno, di portare lo spettatore dalla parte della vittima e di accusare la miopia e l’indifferenza di chi assiste a tanta brutalità senza intervenire. Questo tipo di ciecità è simboleggiato da D tramite le bende, le fasce che indossano sugli occhi professori, poliziotti e compagni di scuola del ragazzo bullizzato e umiliato dai coetanei fino ad essere pestato, inchiodato ad un croce, “teaserato” e ucciso a colpi di pistola nella piazza davanti al college, mentre tutti osservano la scena, sì bendati ma riprendendo coi loro cellulari l’omicidio. Nella sequenza finale, dal pestaggio alla morte della vittima, la tensione sale, la musica cresce, e si conclude col primo piano del protagonista crocifisso che si risveglia e che guardando in camera sussurra “Merci”. A chi si rivolge? Forse, come il simbolo della croce e della crocifissione, può essere interpretato in chiave cristiana, probabilmente D vuole rendere il protagonista un martire o semplicemente gli fa dire un “grazie” sarcastico e accusatore, rivolto a chi ha guardato fino ad ora senza tentare di cambiare le cose. La croce è anche un simbolo antico: l’odio, un odio simile non può più essere attuale eppure si è protratto fino ad oggi, fino all’epoca contemporanea (teaser). Anche l’inutile comparsata delle suore e le lucine come addobbi natalizi sulla vittima crocifissa potrebbero essere per D una provacazione, un'”occhiataccia” alla Chiesa e alla sua intolleranza nei confronti dell’omosessualità (o delle altre religioni, delle altre culture, del diverso) e in generale a chi si professa come appartenente al “popolo del bene” ma ancora una volta, nella storia, non agisce dalla sua parte. Sappiamo che gli Indochine hanno dato carta bianca a D per realizzare il videoclip; se si ascoltano le parole del testo l’impressione che si ha è che non sempre storia ed immagini siano coerenti con esso (d’altra parte il brano stesso può portare a diverse e svariate interpretazioni): in alcune strofe si avvicina a i sentimenti del ragazzo del video, altre invece sembra raccontare storie diverse e lontane da lui.. Dovremmo intervistare autori e musicisti per sapere con certezza il significato di una canzone perciò per adesso a noi la scelta e la libera interpretazione.Ciò che però è certo è che gli Indochine e D insieme delineano un mondo di rabbia (lo sfogo di un adolscente in camera sua, la boxe come rifugio) e fragilità (una fuga disperata senza scarpe), ci parlano di un’identità in crisi (il ragazzo si riflette e si guarda dentro un specchio rotto in mille pezzi dai bulli; D usa spesso il fuori-fuoco, la silhouette, diaframmi molto aperti per il protagonista), della vergogna e dell’umiliazione (guarda in camera e copre con una mano l’obiettivo, per non essere visto) di essere torturati psicologicamente e fisicamente solo perché diversi, o forse migliori, e di un altro mondo, quello contro di noi , che non ci ama e ci sparla dietro le spalle, quel mondo che è la nostra croce. In sostanza si tratta ancora una volta di una battaglia.

ELEONORA ZAPPIA
Se puoi pensarlo puoi filmarlo.
Il cinema di Xavier Dolan

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“Gli scettici dovranno ricredersi!” (Anne Dorval, Mommy)

Dovranno ricredersi riguardo alla giovane età del ragazzo québécois che uccide sua madre, ma anche riguardo alle capacità cinematografiche attraverso cui conferisce spessore psicologico ed emotivo ai suoi personaggi. Nei film di Xavier Dolan ogni fotogramma possiede un’enorme pregnanza emotiva, che scaturisce per mezzo di espedienti tipici del linguaggio cinematografico. In particolare, uno di quelli con più forza comunicativa è la rappresentazione del pensiero mentale dei personaggi. Limitando l’uso della parola e consacrandosi all’estetica dell’immagine, questa tecnica instilla emozioni a partire dal pensiero dei protagonisti di tutti e sei i film di Dolan.
Hubert durante un’accesa discussione con sua madre, apre le ante della cucina, prende una pila di piatti e li scaraventa con forza per terra. La cinepresa inquadra i cocci, simbolo della tensione e della rabbia espressa dall’adolescente.
Ed ecco la dichiarazione: “Ti odio”. Tuttavia i piatti sono ancora tutti intatti, Hubert non ha mai aperto le ante. Il pensiero mentale è fondamentale, in quanto permette allo spettatore di immedesimarsi totalmente con le sensazioni provate dal protagonista (“J’ai tué ma mère”). Anche Nicolas non è realmente immerso in una pioggia di marshmallow: quest’immagine è infatti immaginaria, come gli amori di cui parla Dolan nel suo secondo film. Il biondo dio greco sullo sfondo azzurro, ricoperto di dolcezza e assuefazione, rappresenta l’oggetto del desiderio idealizzato da Francis e Marie. La felicità, invece, ha i colori dei vestiti che cadono dal cielo, come ci mostrano Fred e Laurence (Laurence Anyways). Le apparenze, simboleggiate dai pesanti abiti degli uomini, si trovano finalmente gettate all’aria, mentre al di sotto i protagonisti possono sfilare in libertà, anche se solo nella loro mente. In Tom à la ferme, è il terrore a manifestarsi sotto forma di volto senza connotati con cui Tom si riconosce guardandosi allo specchio, forse in preda ad una visione. La visione è anche quella di Diane, la mamma che, appena prima del ricovero finale del figlio Steve, immagina per lui un futuro pieno di gioia e amore, quel futuro che permette ad ogni madre di allargare le proprie speranze e, in questo caso, anche il formato del film (Mommy). Al contrario, è il passato quello che occupa i pensieri di Louis; i suoi ricordi di infanzia felici, ma allo stesso tempo strazianti, si oppongono al futuro senza speranza del protagonista, ritornando come a ricordare al giovane che non c’è scampo alla morte (Juste la fin du monde).
I pensieri sono la più veritiera proiezione delle emozioni e questo il cinema di Xavier Dolan l’ha compreso fin dall’inizio.

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