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Verhoeven presenta Elle: "Farò un film su due suore italiane"

Paul Verhoeven è passato da Roma a presentare Elle, il suo nuovo film in uscita il 23 Marzo per Lucky Red. Il regista olandese ha parlato a ruota libera di tutte le sfumature di questo suo affascinante progetto, che rilancia in maniera esponenziale le ambizioni del suo cinema provocatorio e mai accomodante. Ma si è soffermato con entusiasmo anche sui suoi progetti futuri…


Elle non ha sfondato nella cinquina del miglior film straniero, nonostante la nomination alla Huppert. È troppo eversivo, per gli americani? 


Il momento della transizione, in cui il personaggio di Michèle passa da vittima a sviluppare un rapporto di natura sadomasochista col suo violentatore, è qualcosa di estremamente controverso che non ci ha permesso di trovare dei finanziatori negli Stati Uniti per la realizzazione del film, né di trovare attrici per fare il film. Il fatto che sia stato escluso dalla rosa dei candidati è probabilmente un fatto politico.


Di femminicidio e di violenza sulle donne oggi si parla tantissimo. In questo film però c’è tantissima ironia e si ride molto. Volevo sapere quanto questo aspetto è stato intenzionale, quanta ironia c’era nel romanzo e quanta invece ce ne ha messa lei. 


Era già accennata nel romanzo Oh... di Philippe Dijon, che passa da scene di grandissima violenza ad aspetti molto più sociali, che sono parimenti importanti nell’economia del romanzo e anche in quella del film. Non volevo realizzare un thriller, anche se c’è un po’ di noir in Elle, né volevo incasellare il film in un singolo genere. La vita non è un genere né è classificabile come tale, anche se oggi il cinema categorizza in maniera estremamente violenta i generi. Non volevo fare un film standardizzato, perché la vita non è certo così: la mattina vivi esperienze orrende, la sera ridi per qualcosa che hai sentito al telegiornale. Questa donna ha vissuto delle cose tremende e sviluppa rapporti strani con molte persone, ma la vita è fatta così e io volevo raccontare proprio questo aspetto…


Le sue donne presentano spesso degli aspetti borderline. Michèle ha anche dei tratti amorali e antiborghesi. 


In questo caso il personaggio è nel libro che mi è stato dato dal produttore Saïd Ben Saïd, ma non sono attratto in particolare da questo tipo di donne. Io la Michèle di Isabelle Huppert la considero normale e anche in Black Book, per restare ai miei film recenti, c’era una normalissima ragazza ebrea che vive in Olanda nel periodo dell’occupazione nazista, teme di essere spedita ad Auschwitz e cerca di sfuggire a questa sorte. Michèle è stata forgiata da eventi luttuosi, suo padre ha ammazzato ventisette persone: la vedo non come una persona tormentata, ma come una sopravvissuta. Lei rifiuta di essere vista come una vittima, dice di credere di essere stata violentata, in maniera criptica, quando noi sappiamo benissimo che lo è stata davvero. Quando vede pietà e compassione negli occhi degli altri commensali, poi, taglia corto e propone di ordinare da mangiare. Non c’entrano gli squilibri, è il suo carattere. Dell’amoralità non mi importa, è qualcosa che non mi tocca e la moralità non c’è, c’è nei miei film. Nei miei ultimi due film le protagoniste sono due donne: invecchiando, mi rendo conto che mi interessano più le donne degli uomini. Anche il rapporto con mia moglie è stato fondamentale, per me e per il mio lavoro. Negli anni ne abbiamo superate davvero tutti i colori, insieme.


Il suo, a dispetto delle etichette erronee che in passato sono state cucite addosso al suo cinema, è un film molto femminista, dove gli uomini sono sempre inadeguati, falliti, subalterni. 


La scena finale del film è la stessa del libro, con le donne che si lasciano alle spalle gli uomini e si avviano verso un avvenire da vivere insieme. Hanno già avuto un rapporto lesbico, sappiamo che non ha funzionato ma non sappiamo se funzionerà in futuro. Però loro due andranno avanti senza gli uomini. Fondamentalmente abbiamo preso tutto dal libro, abbiamo modificato e ampliato i personaggi ma io di base non ho inventato nulla, seguendo tutto ciò che il romanzo ci offriva.


Come si è ritrovato a lavorare con Isabelle Huppert?


Isabelle era già interessata al progetto prima che ci entrassi io, aveva contattato lo scrittore e voleva farlo a tutti i costi. Io vivo a Los Angeles e lavoro lì, il produttore Saïd Ben Saïd ha lavorato in film di lingua inglese al fianco di Polanski, Cronenberg, De Palma, per cui ha proposto a me di farlo  negli Usa e abbiamo contatto uno sceneggiatore, David Birke, per scrivere una sceneggiatura in lingua anglofona. Sottoponendola per due o tre mesi ad agenti e attrici non siamo riusciti però a mettere insieme i finanziamenti necessari e nessun’attrice voleva farlo, ritenendolo troppo problematico come ruolo. Su consiglio del mio produttore siamo allora ritornati in Francia, a Parigi, da Isabelle, mettendo da parte l’orgoglio con molta umiltà. Lei ha immediatamente detto di sì, non ci ha pensato un attimo. Non c’è stato bisogno di discutere con lei di aspetti psicologici o freudiani, perché Isabelle non ha avuto da ridire su nulla essendo una persona straordinariamente audace, che crede fermamente nel ruolo che sta interpretando. Non cerca mai e poi mai di attirarsi la simpatia del pubblico e dopotutto sono anch’io così.


Lei ha ambientato il suo film nel mondo dei videogiochi, un aspetto che non è presente nel libro, dove Michèle lavora insieme a un gruppo di sceneggiatori per la tv e per il cinema, non certo come manager videoludica…


Dal punto di vista visivo l’editing di una sceneggiatura, con personaggi da cambiare e modifiche analoghe da fare, mi sembrava qualcosa di estremamente astratto, che non funzionava sul grande schermo. A cena a Los Angeles ne ho parlato con mia moglie e le mie figlie e la mia figlia più piccola, che conosce e ama i videogiochi, mi propose quest’idea. L’ho sottoposta al mio sceneggiatore, David Birke, scoprendo che anche lui è un fanatico dei videogiochi, che li conosce e ci gioca moltissimo. David ha colto la palla al balzo, io ho iniziato a studiare questo mondo e abbiamo deciso di intavolare in sceneggiatura una vera e propria narrazione parallela. A Parigi abbiamo visitato una società che li realizza, non potendo permetterci un gioco nostro realizzato ex novo, dato che sono cose molto costose, abbiamo usato dei videogame che loro avevano già.


In Europa, oggi, c’è più libertà per un cineasta rispetto agli Stati Uniti? Lei è ritornato in Europa, in Francia, dopo anni di lavoro in America.


Assolutamente. Quello che sta succedendo adesso negli Stati Uniti non c’è al momento in Europa, anche se è accaduto in passato…


 


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