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Viggo Mortensen alla Festa di Roma: "L'attore deve lavorare come un bambino"

ll ritorno del re: così Antonio Monda ha salutato il ritorno alla Festa di Roma, dopo alcuni anni, dell’attore statunitense di origini danesi Viggo Mortensen, arrivato nella kermesse capitolina per raccontare se stesso e la propria carriera con la solita postura riflessiva e in apparenza glaciale, sempre pronta, tuttavia, a sciogliersi e a rivelare un misto di tenerezza e profondità. Le stesse sfumature e caratteristiche che, dopotutto, contraddistinguono Mortensen come interprete.

Viggo Mortensen, stavi per passare dietro la macchina da presa ma hai rimandato l’appuntamento. Quali sono le doti che credi debba avere un regista e che cerchi in un regista, come attore?

Bisogna essere preparati, per quanto mi riguarda, non urlare, trovare un’atmosfera tranquilla e produttiva. Un regista deve essere un po’ come un mago, su un set bisogna divertirsi come se si fosse in un viaggio. Bisogna anche sapere delegare e consentire alle persone di fare il loro mestiere al meglio. Ho scritto una sceneggiatura negli anni ’80 e stavano per farne un film, anche se alla fine non se ne è fatto più nulla. Dovevo esordire quest’anno alla regia, ma qualcuno alla fine si è tirato indietro e le risorse economiche non sono più state sufficienti, purtroppo. Del mio prossimo progetto non voglio parlare per scaramanzia, non vorrei che portasse male rivelare troppo, ma dovrei farlo. Ho queste due sceneggiature in ballo e vediamo cosa ne esce fuori. Certo, fare qualcosa di analogo a ciò che hanno fatto due registi che hanno lavorato con me come Matt Ross e David Cronenberg mi piacerebbe molto. Sarebbe bello comportarsi come loro su un set, ecco.

Cosa ti ha spinto a diventare un attore? 

Andavo molto al cinema con mia madre, mi portava a vedere dei film anche ingombranti per un ragazzino di quattro anni. Andavo sempre al cinema, a teatro, per me fu in quel periodo questi consumi culturali furono una vera svolta. Volevo diventare un gaucho all’inizio, qualcosa di assolutamente semplice. Poi però la fantasia prese il sopravvento. Al cinema ho visto Biancaneve, Un uomo per tutte le stagioni, anche film epici come Ben Hur, poi un film argentino su un gaucho che si chiama Martín Fierro. L’ho rivisto di recente e trovo abbia ancora moltissimi motivi d’interesse, anche se non mi va di esprimermi a tal proposito, perché personalmente, se posso dirlo, ritengo sia estremamente difficile giudicare l’arte. Mi hanno proposto varie volte di fare da giurato in festival di cinema importanti e prestigiosi, ma io ho sempre declinato gentilmente l’offerta. Forse sono un vigliacco, ma io sono più vicino alla dimensione infantile dell’arte: i ragazzini sono tutti artisti perché ciò che vanno si muove al di fuori dell’alveo di un giudizio. Ogni attore, per me, deve essere un bambino per essere davvero tale.

Uno dei film più potenti che hai girato negli ultimi anni è The Road di John Hillcoat. Com’è andata su quel set?

Col bambino che ha recitato insieme a me, Kodi Smit-McPhee, che non avevo mai incontrato prima del set, ci siamo ritrovati alle prese con la neve e col freddo ma ci siamo anche divertiti molto, abbiamo giocato e fatto tante cose pratiche insieme, siamo finiti in un negozio messicano in cui vendevano ogni varietà di insetti fritti conditi. Una volta ci siamo fermati vicino a un ruscello freddo per una scena in cui io gli lavavo i capelli: era tutto così gelido che Kodi ha iniziato a piangere e non si è più fermato, mentre il regista continuava a girare. Nel film si percepisce che quel momento prende vita per davvero e che le sue lacrime sono vere ed è bellissimo. Il padre di Kodi era sul set, si è accorto della cosa e non ha battuto ciglio. Dopo ci siamo ritrovati sotto delle coperte calde anche solo a parlare e a condividere quel momento di ritorno al torpore e all’equilibrio, sono esperienze impressionanti e incredibili quando condividi un’intimità di questo tipo. Anche se solo per finzione, è impossibile scrollartela di dosso.

Hai avuto modo di conoscere Cormac McCarthy, autore del libro da cui è tratto il film? 

Cormac è venuto sul set, con suo figlio John, che tra l’altro all’epoca era coetaneo di Kodi per cui tra di loro si è instaurata una connessione interessante. Ha parlato con noi, Cormac si guardava intorno sul set e pareva estremamente soddisfatto di quello che stavamo facendo. Poi siamo andati a cena: un piccolo caffè dell’Oregon, davvero niente di speciale. Cormac disse che stavamo facendo qualcosa che per forza di cose era estranea al suo romanzo, però era curioso di vedere il risultato finale e assai contento delle premesse. Poi ci siamo spostati ben presto su altri argomenti: la politica, anche la scienza, perché lui è un grandissimo appassionato di scienza. Per la maggior parte del tempo lui parlava e io ascoltavo rapito: è un bravo scrittore e una mente davvero splendida.

Passiamo alla scena celeberrima scena de La promessa dell’assassino in cui ti ritrovi a lottare completamente nudo. Cosa c’era scritto sulla sceneggiatura: due uomini fanno a botte e basta? Perché lo scontro fisico dal punto di vista visivo è davvero feroce e impressionante. 

Ciò che più di ogni altra cosa mi ha insegnato David Cronenberg è che, da attori, bisogna avere la fiducia incondizionata che la macchina da presa veda e senta tutto. Purtroppo oggi non esistono moltissimi David Cronenberg, la stragrande maggioranza dei registi non sono attenti alla realtà, alle reazioni più sottili che puoi avere e poi si lamentano se al montaggio le scene hanno dentro troppi silenzi o c’è qualcosa che non va. Con David sai che se una cosa è utile alla storia si tratta di un contributo che affidando a lui metti in banca, perché troverà il modo che venga usata, senza bisogno che tu esageri o che rifaccia la stessa cosa tre volte nella speranza che venga acchiappata. Non c’è bisogno, con una mente portentosa come quella di David. Lui riceve ogni suggerimento, non importa se a farlo sia io o un elettricista della troupe. Ma se è una stupidaggine lui non teme di dirtelo e lo fa sfacciatamente, è il suo metodo di lavoro ed è inattaccabile, perché funziona alla grande.

In Carlito’s Way al fianco di Al Pacino hai prodotto un personaggio diverso dai tuoi standard abituali. Non più un eroe senza macchia o senza paura come spesso ti abbiamo visto al cinema, ma un traditore, viscido e laido, assolutamente sgradevole. 

Feci sfoggio del mio accento spagnolo per quel personaggio portoricano e alla fine mi diedero il ruolo, nonostante uno scetticismo iniziale dovuto al mio aspetto fisico. Io non ho alcuna preferenza tra un personaggio positivo e uno negativo, mi interessa soltanto il processo. Incontrai Brian De Palma e Al Pacino in un albergo a Los Angeles, erano seduti in una suite gigantesca. Per il lavoro sul personaggio ho trascorso molto tempo a East Harlem, un quartiere  pieno di portoricani a New York, stando con loro giorno e notte e ascoltando la loro musica. Avevo un enorme catalogo di musica anni ’60 alla fine, salsa soprattutto.

Veniamo al tuo ruolo più celebre col quale non possiamo non concludere: Aragorn della trilogia Il signore degli anelli. E’ vero che clamorosamente non volevi accettare il ruolo che poi ti ha cambiato letteralmente la vita e la carriera? 

Mi convinse mio figlio di undici anni ad accettare il ruolo di Aragorn. Io non avevo letto il libro, la Nuova Zelanda era lontana, dovevo sostituire un attore che aveva lavorato solo un paio di settimane e poi era stato congedato. Non mi sentivo pronto, non pensavo che in quel momento della mia carriera fosse il miglior ruolo possibile, a essere sincero. Mi figlio mi disse che ero matto a non accettare e il fatto che il film sarebbe piaciuto a lui mi spinse a farlo, era un lavoro che poteva vendere anche lui e questo mi faceva enormemente piacere perché non era una situazione che si verificava  spesso. Avevamo da girare queste scene assurde sul set: c’eravamo io, Orlando Bloom e Peter Jackson, con niente davanti se non uno schermo verde, era tutto buffissimo e davvero strano. Peter ci diceva dove muoverci, guardare e spostarci, ma io non vedevo nulla. Sguainavo e brandivo a spada con le prove del cast tecnico accanto e dei tizi della troupe che sorseggiavano caffè bollente, mentre io ero imprigionato in quel costume assurdo. Ma non importava che le creature digitali ci fossero o no: devi dimenticarti che non ci sono e crederci per davvero. Crederci è l’unico modo per far sì che ci credano anche gli altri quando poi ti guardano. Sono diventato più bravo, facendo quei film, molto più bravo, proprio perché mi sono sentito un idiota e sono stato costretto ad accettarlo. Se mi sentivo stupido, infatti, era solo colpa mia. Un attore deve lavorare come un bambino, superare l’imbarazzo, senza mai vergognarsi. Ne sono profondamente convinto.

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