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Workshop su Alfred Hitchcock: le vostre analisi

Al termine del nostro workshop su Alfred Hitchcock abbiamo chiesto ai partecipanti di proporre un’analisi fatta da loro su una sequenza diretta dal grande regista inglese. Eccole qui di seguito:

 

Samantha Ruboni

HITCHCOCK E IL CINEMA: la sequenza iniziale de La finestra sul cortile

https://www.youtube.com/watch?v=mQuyQC11yUY

 

Sicuramente una delle pellicole più celebri della filmografia di Hitchcock, La finestra sul cortile non è solo un film sul voyerismo, tema molto caro al regista. Fin dai primi secondi dei titoli di testa della pellicola, capiamo che Alfred vuole dirci molto di più. Il film risulta un’analisi del cinema, che viene effettuata dal regista senza nessuna esplicitazione e mai abbandonando la narrazione principale. Il film inizia con le tendine della grande finestra della casa di Jeff (James Steward), il nostro protagonista, che si aprono così come si apre il sipario nei teatri e nei cinema d’epoca. Con una carrellata in avanti veniamo proiettati nello spazio scenico del film. Con complessi movimenti di macchina, che vengono effettuati per evidenziare le possibilità tecniche del cinema, Hitchcock ci fa vedere dalle finestre le vicissitudini dei vicini. Le finestre risultano tanti piccoli schermi dove altrettante storie prendono forma. Inoltre gli appartamenti e le varie dimensioni delle finestre possono ricordare la sequenza di inquadrature che viene effettuata con il montaggio. La presenza di pareti che occultano la visione di parti di appartamento e di azioni, rispecchia l’ellissi temporale che avviene durante il montaggio. Inoltra con una carrellata interno/esterno Hitchcock entra nell’appartamento di Jeff, presentandoci il protagonista senza proferir parola, ma con una carrellata sui suoi attrezzi da lavoro, che sono proprio delle apparecchiature per la riproduzione visiva, dal momento che Jeff è un fotografo, lavoro equipollente al cinema. Verso la fine della sequenza, l’obbiettivo si sofferma sul negativo di una foto e sul suo relativo positivo, a rivelare le complesse procedure fotografiche e di rimando cinematografiche. Tutto ciò ci fa comprendere, in pochi minuti, quanto la pellicola sia in realtà un metafilm che vuole analizzare il linguaggio cinematografico e il rapporto con lo spettatore, rappresentato dal personaggio di Jeff, seduto su una poltrona a guardare varie storie che si muovono su vari schermi, nostro vero e proprio alter ego all’interno del film. Quando lui guarda, anche noi guardiamo – anche attraverso le attrezzature utilizzate – e quando lui si gira, smettiamo di vedere, attendendo solo il momento che si rigiri per sapere cosa sta accadendo alle sue spalle. Ma anche qui Hitchcock, come nella migliore delle sue tradizioni, inserisce, nei momenti di dormiveglia di Jeff, sequenze di cui solo lo spettatore è a conoscenza, dando sempre quel senso di esclusività che crea la suspense, punta di diamante del cinema del regista.

 

Daniela Di Carlo

Analisi di una sequenza di Nodo alla gola

 

È il 1948 e Alfred Hitchcock firma Nodo alla gola, una pellicola ricca di sperimentazioni, che ancora una volta conferma che per il maestro della suspense “il cinema non è il cosa ma il come”. Sono infatti numerose le scelte registiche (in alcuni casi veri e propri virtuosismi pionieristici) a rendere questo film un vero modello di giallo in stile hitchcockiano.

Il regista per la prima volta abbandona il bianco e nero a favore del colore: non sono più le stranianti scale di grigio a generare angoscia, ma il colore cala la vicenda (ispirata ad un episodio realmente accaduto) in una dimensione tangibile, potenziandone finemente l’inquietudine. Ad accrescere la suspense è un sottile gioco di sottrazione in cui l’io narrante è unico e onnisciente, in cui prevale una claustrofobica unità di spazio, tempo e luogo, e le inquadrature lente o statiche caratterizzano i piani sequenza che compongono la pellicola. Infatti è la tipicità dei movimenti di camera a trasformare la cinepresa nell’occhio di un voyeur invisibile che si aggira per la casa scrutando, ora con ironia, ora con cinismo, i partecipanti al cocktail con delitto. Questi elementi stilistici fanno da cornice a ciò che costituisce l’essenza della suspense hitchcockiana, efficacemente resa nella sequenza in cui la domestica sgombera il banchetto allestito sul baule nel quale è nascosto il cadavere e, ignara di tutto, si accinge a riporne i libri all’interno. Seminascosta dalla cassapanca, la telecamera immobile spia i rapidi movimenti della cameriera che avvengono alle spalle del professor Cadell e degli ospiti (dei quali si sente soltanto il vociferare) e l’utilizzo della profondità di campo permette di distinguere dettagliatamente i movimenti della donna, il cui frenetico andirivieni fa da contraltare alla staticità del professore in un crescendo di tensione. Lo sguardo dello spettatore-voyeur è così costretto a osservare da una prospettiva paralizzante come un nodo alla gola, stretto fino a togliere il fiato quando il baule viene aperto sotto lo sguardo sospettoso di Cadell. Sarà la prontezza dello spudorato Brandon a sciogliere la tensione, concedendo allo spettatore un respiro di sollievo. Ma solo per poco, perché come disse Hitchcock: “un buon regista deve far soffrire il pubblico il più possibile”.

 

Barbara Marchi

L’OMBRA DEL DUBBIO

Titolo originale: Shadow of a Doubt

Anno: 1943

Durata: 108 min.

Formato: b/n

Con L’ombra del dubbio Alfred Hitchcock realizza il suo primo film americano ambientato in una piccola cittadina di nome Santa Rosa in California. Non si tratta certo di una delle pellicole più note, ma forse, come ebbe a dire F. Truffaut in quel famoso dialogo degli anni ’50 con il regista britannico (da cui prese forma il libro “Il cinema secondo Hitchcock”), è il suo prediletto.

Sebbene il film del 1943 non possegga ancora il piglio drammatico di molte delle pellicole successive, privo peraltro dell’apporto musicale, senza dubbio determinante, di Bernard Hermann, presenta alcune delle tematiche care al cineasta britannico, prima fra tutte il tema del doppio, qui declinato nel rapporto fra zio e nipote (entrambi hanno lo stesso nome), l’uno lo specchio dell’altra.

L’ombra del dubbio è anzitutto, come sarà più tardi La congiura degli innocenti del 1956 (The Trouble with Harry), un film corale al cui centro c’è una tipica (solo apparente) famiglia americana, dove si rifugia Charlie Cookley (Joseph Cotten) ricercato per essere sospettato dell’omicidio di ricche vedove. Qui ritrova la sorella maggiore, il cognato e i tre nipoti, tra cui la giovane Charlie.

Una relazione, quella fra nipote e zio – come sarà più tardi in La donna che visse due volte del 1958 (Vertigo) – in cui lo zio, prima amato, è poi odiato e infine ucciso, seppure accidentalmente (come Scotti con Madeleine) dalla nipote. Lo stesso Hitchcock racconta a Truffaut che “lo zio Charlie amava molto la nipote, tuttavia mai quanto lei. Eppure lei è stata costretta a distruggerlo: non dimentichiamo che Oscar Wilde ha detto: «si uccide ciò che si ama»”

Il film corre continuamente lungo un duplice registro (e duplici, non a caso, sono molte scene, tra cui due monologhi), quello dello zio Charlie che cerca di nascondere la verità, e quello della nipote che, al contrario, vuole scoprirla. E se il rapporto di amore fra i due si trasforma presto in una guerra all’interno delle mura domestiche – tanto che lo zio tenterà di uccidere la nipote due volte – la famiglia non se ne renderà mai conto. La nipote sa (e con lei lo spettatore), ma non può parlare. Come in Io confesso del 1952, la tensione (quella che Hitchcock chiama “suspense”) sta proprio nel sapere la verità da parte del protagonista (facendone partecipe lo spettatore), ma nel non poterla rivelare.

Del resto, la scoperta della nipote che lo zio Charlie non è “l’uomo più nobile del mondo, il più buono, il più onesto”, ma un omicida seriale è destinata a restare un suo segreto sino alla fine, condiviso solo con lo spettatore e il neo fidanzato, nonché detective di cui resterà ignara sia la famiglia sia la comunità. Un finale per niente rincuorante, se pensiamo al terrorizzante Psyco del 1960, dove l’auto di Marion Crane, sommersa nelle sabbie mobili, è nell’epilogo riportata alla luce, come la verità su Norman Bares.

Dunque, protagonista del film, come sarà in Psyco e poi in Frenzy del 1971, è il cattivo di turno, non l’innocente e ingiustamente accusato, al contrario di molte pellicole del cineasta, ad essere il perno intorno a cui si snoda la trama.

Tuttavia, in L’ombra del dubbio, forse per l’unica volta, l’eroe malvagio ha una personalità complessa, sfaccettata, priva di stereotipi (non siamo di fronte al classico psicopatico dall’infanzia difficile come il Norman Bares di Psyco) e, come nota giustamente Truffaut, “il pubblico ha molta simpatia per lui, probabilmente perché non lo vede mai mentre sta assassinando delle vedove…”).

Ha viaggiato molto, è arguto, affascinante, ma al tempo stesso non è il tipico americano: possiede molti soldi rubati alle vittime di cui sfacciatamente si disinteressa e le donne, nello specifico le vedove, sono esseri “orribili, putridi esseri umani indegni di questo nome”, confessa nel suo primo monologo, durante un tranquillo pranzo familiare, tanto da paragonarle – e ancora oggi sono parole che fanno sobbalzare – a “un’ingorda bestia vecchia, grossa e asmatica” di cui non si può far altro che disfarsene.

Uccide insomma non per diletto, atto gratuito senza motivazione, come in Nodo alla gola del 1948 (Rope) o addirittura per caso, senza alcun nesso logico, come in L’altro uomo (nella riedizione Delitto per delitto) del 1951 (Strangers on a Train), ma sulla base di una convinzione interiore, “si tratta di un assassino idealista”, racconta Hitchcock a Truffaut.

Nel secondo memorabile monologo, oltre i due terzi del film, quando ormai la nipote ha scoperto che l’omicida delle vedove è proprio suo zio, lui le parla apertamente, rivelandole le sue ragioni e aspettandosi che proprio lei, la sua prediletta, lo possa capire.

È sera e i due sono in un bar, al di fuori dell’atmosfera familiare dove entrambi sono costretti a fingere e alla nipote che crede di sapere, lo zio rinfaccia di non conoscere affatto come stanno le cose. “Che cosa sai tu realmente della vita?”, le chiede, “sei una ragazza ordinaria che vive in una piccola città ordinaria e ogni giorno della tua vita non c’è nulla che ti preoccupi del mondo. Vivi la tua giornata ordinaria e dormi notti tranquille con stupidi e puerili sogni; sono io che ti ho provocato degli incubi o è solo una bugia?!”

Lei lo guarda con occhi nuovi, fatica a comprendere, e con lei anche lo spettatore che si sente preso in trappola; mai si sarebbe aspettato un discorso così, senza mezzi termini: “sei tu che vivi in un sogno, che ne sai tu del mondo, che ne sai tu di questo porcile laido? Dietro la facciata di ogni casa vivono e prolificano esseri immondi che non hanno niente da invidiare alle bestie” (torno la similitudine essere umano/bestia).

Questa volta è lo zio Charlie a voler mostrare la verità alla nipote che invece appare miope e incapace di vedere la realtà per quella che è: “il mondo è un inferno, che importanza ha che cosa vi accade? Apri gli occhi Charlie, guardati intorno e impara!” E allora forse l’ombra del dubbio che si insinua nella mente della ragazza è la stessa che si annida nello spettatore al termine di questo monologo, quando per bocca del cattivo di turno, Hitchcock sembra voler suggerir un’altra prospettiva, altrettanto legittima e magari, chissà, altrettanto vera.

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