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WORKSHOP SU “Il cinema di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli”: I VOSTRI ELABORATI!

Al termine del workshop dedicato al cinema di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli, abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di questo regista di spicco del cinema d’animazione, giapponese e non solo. Ecco il lavoro che ha meritato la pubblicazione!

 

Lucia Cirillo

“Anime” di una generazione

 

I bambini degli anni ‘80 hanno questo in comune. L’imprinting da “edonismo globale”. Erano gli anni in cui in Occidente si nutriva una cieca fiducia nel rampantismo avido e nel mercato libero e senza regole, mentre in una parte dell’Oriente si assisteva per la prima volta ad una (troppo) rapida ascesa economica e finanziaria, a nuove organizzazioni produttive, a rinnovati assetti sociali e alla negazione, con semplicistica leggerezza, di sistemi di valori dalle tradizioni millenarie.

Il Giappone di quegli anni viveva proprio questo strano passaggio repentino: la sua economia decollava in modo così rapido e incontrollato che assecondarne il processo pareva la sola possibilità. È stato proprio in questo clima di disordinato ottimismo che nacquero e si diffusero presto, gli “anime”.

I “cartoni giapponesi” parlavano all’Occidente veicolando al contempo i valori di una cultura antichissima costantemente in bilico tra la sua storia ingombrante e un presente costellato dalle insidie di un benessere a cui non si era abituati. D’ora in poi non sarebbe stata soltanto l’America disneyana a monopolizzare la costruzione di sogni “globali”: dagli anni Ottanta l’immaginario di un bambino di quell’epoca si sarebbe popolato anche di eroi nuovi chiamati Lupin, Mila e Shiro, Lady Oscar, Georgie, Anna dai capelli rossi, Candy Candy, Holly e Benji…una vera rivoluzione copernicana della narrazione animata, un punto di non ritorno per una generazione che, crescendo, avrebbe imparato a confrontarsi con questo genere a livelli sempre maggiori di consapevolezza e di maturità.

È sulla scorta di simili premesse che la poetica di Miyazaki, e del suo studio Ghibli, ha potuto contare su un pubblico ormai strutturato e pronto ad un campionario di proposte nelle quali le costanti sarebbero state mondi fantastici con cui veicolare messaggi filosofici ed etici, differenti geometrie dei legami familiari e sociali, la forza propulsiva e rigenerante dell’infanzia, la malinconia  dei ricordi, il pessimismo dell’agire umano per la protezione dell’ambiente e la costruzione di un mondo di pace. E poi, ancora, proposte grafiche a forte vocazione sperimentale e strutture narrative costruite su architetture diverse dai modelli classici di racconto.

In tutti i film dello studio Ghibli è costante una specie di convinta esortazione ad osservare il mondo da un punto di vista differente da quello ad “altezza uomo” o, meglio ancora, ad “altezza terra”: ci sono sempre ottime ragioni per sprofondare negli abissi per poi sollevarsi in cielo e osservare il mondo nella sua totalità, allontanando così tutti i dettagli inutili e ritrovare una realtà meglio definita proprio grazie al filtro della fantasia. Pare un paradosso e invece tutto torna proprio quando si accetta di indossare “lenti speciali” per nuove messe a fuoco sul mondo. Pare quasi non essere un caso che Miyazaki abbia tratto proprio dalla sua miopia la primaria fonte della propria ispirazione: un nuovo sguardo sul mondo.

Si potrebbe anche soltanto pensare a “La città incantata”, il più premiato e popolare dei film di Miyazaki, per provare ad intuire le ragioni principali di un progetto che si ripropone con una coerenza che sarà sempre accompagnata da una creatività mia appannata. La chiave di lettura della storia è così stratificata che si potrebbe pensare di proporla, con pari successo, ad un pubblico anagraficamente differenziato. Suscitando emozioni altrettanto differenziate.

Eppure, un bambino degli anni ‘80 ha forse qualche vantaggio in più: ne capisce il linguaggio, la portata di ogni messaggio, il ritmo della narrazione. Un bambino degli anni ‘80 era piccolo in anni che si dimostrarono diversi da ciò che sembravano e si ritrovava a crescere tra adulti che del futuro avevano smesso di occuparsi. Il privilegio, per un bambino degli anni ‘80 che vede da grande la “città incantata”, è quello di avere la percezione esatta di ciò che si sta raccontando: dall’avidità al contrasto col mondo adulto cinico e indifferente, dalla fatica di crescere alla perdita dell’identità, dall’ impoverimento della natura alla forza rivoluzionaria della tenacia…tutto appare chiaro e comprensibile perché quel mondo di simboli è stato assimilato nella più tenera età. Perché, appunto, l’imprinting è quello giusto.

 

“Tesoro non prendere la scorciatoia. Finiamo sempre per perderci”.

 

È tutto qui il limite di una generazione che non riesce più a sottrarsi alla trappola di un mondo che promette strade semplici per raggiungere la meta e che presenterà il conto alle generazioni successive. Un monito o una profezia? Dipende, ormai lo abbiamo imparato, dal punto di osservazione e dalla lente utilizzata.

Gli anni ‘80, secondo l’adulta degli anni duemila che scrive, sono stati tra i più “tossici” della storia umana. Ma, a ben “guardare”, che gran fortuna essere stata una bambina proprio in quel tempo lì!

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