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Workshop fratelli Coen: i vostri elaborati!

Al termine del workshop dedicato al cinema dei fratelli Coen, abbiamo chiesto ai partecipanti di redarre un elaborato su una sequenza a scelta diretta dai registi statunitensi. Ecco i lavori dei corsisti:

 

Antonio Floris

IL GRANDE LEBOWSKI

Se i due fratelli del Minnesota non abbiano mai nemmeno cercato di nascondere la loro repulsione nei confronti di Hollywood e dei suoi meccanismi, questa insofferenza diventa pressoché esplicita ne Il grande Lebowski.
Questo film offre un retroscena, nemmeno troppo celato, nei confronti di una città e una comunità che ci viene raccontata per quello che è realmente, lontano dagli scintillii delle insegne luminose e dai red carpet dei famosi festival che si svolgono durante tutto l’anno. Viene raccontato di un luogo, in cui il guadagno e la fama sono anteposte a qualsiasi cosa, un luogo la cui facciata è brillante e ammalia a prima vista, mentre indigna e deprime se solo si prova a guardarla da un’altra prospettiva.
Diciamo che Il grande Lebowski è una sorta di critica a un microcosmo (Los Angeles), funzionale al criticare un macrocosmo (gli USA). I Coen, con la loro satira e l’umorismo nero che li contraddistingue, ci vanno giù pesante nei confronti della società statunitense e dell’industria cinematografica. Esempi lampanti ce ne sono diversi, ma tra i più immediati abbiamo l’introduzione da parte di Walter del personaggio di Jesus, quando dice a tutti che per lavorare a Hollywood abbia dovuto dire a tutti che ha molestato una bambina di otto anni e che è un pederasta (sinonimo del fatto che solo un maniaco possa lavorare in un ambiente di maniaci quale Hollywood stessa). Anche la scena in cui Drugo viene portato in caserma a Malibù è molto esaustiva riguardo il “funzionamento” di Hollywood, scena in cui lo sceriffo sostiene che a nessuno importa niente di Drugo, in quanto egli è solo un perdigiorno nullafacente, mentre il famoso magnate del porno Jackie Treehorn sia uno che porta molti soldi in città e per questo giustificato (dalla polizia stessa) a trafficare droga e commettere atti illeciti.
Nella filmografia dei Coen questo argomento è alquanto ricorrente, ma in questo film ho trovato che fosse abbastanza esplicito e immediato il ribaltamento del sogno americano, criticando la società stessa, borghese e ipocrita, come un ambiente in cui i valori sembrano mancare completamente, dove contano solo i soldi e la facciata e poco importa se in realtà tutto è marcio ed è colluso con la malavita: l’importante è che l’industria del cinema faccia soldi ma al contempo appaia come un regno incantato, dove tutto è bello e scintillante, dove tutto funziona a meraviglia.

 

Samantha Ruboni

A SERIOUS MAN

La sequenza finale di A Serious Man è sicuramente uno dei più bei finali della storia del cinema postmoderno.
Tutto il film è incentrato sul principio dell’indeterminazione, dichiarato ed esplicitato sin dall’inizio. “ Il principio d’indeterminazione dimostra che non possiamo mai sapere davvero che cosa accade”, come il teorema del gatto di Schroedinger – per intenderci quello del gatto nella scatola, che non sapremo mai se è vivo o morto e finché non apriremo la scatola può essere entrambe – animale che tra l’altro torna in continuazione in tutta la filmografia dei fratelli. Sono queste teorie e formule matematiche al quale il nostro incerto protagonista si attacca come a un’ancora di salvezza per comprendere il mondo e quello che gli succede attorno. Ma quando i numeri falliscono decide (inutilmente) di trovare le risposte nella religione. Una religione arrendevole, stanca e troppo impegnata per ascoltare i suoi problemi, più occupata a pensare che ad agire (“così è la vita, devi vedere queste cose come espressione della volontà di Dio”, “queste domande che ti turbano sono come il mal di denti, ti danno fastidio per un po’ e poi spariscono” “Ma io non voglio che spariscano voglio una risposta” “Ashem non ci deve una risposta”, “il rabbino è occupato a pensare”) . Non ci sono risposte. Non ci sono risposte nemmeno nella quotidianità, con dialoghi no sense che culminano nella frase “la prego di accettare il mistero così com’è”. Tutto accade ad un uomo che
cerca in ogni modo di essere il Serious Man del titolo e continua a dichiarare che lui non ha mai fatto nulla. Ma proprio in quel momento in cui sgarra, e decide di abbassarsi anche lui al resto del globo, il momento in cui prende una decisione e in cui fa qualcosa, scoppia l’apocalisse, preannunciata da una pioggia impercettibile, che ci ricorda Magnolia di Paul Thomas Anderson e da un’angoscia d’impotenza, data sopratutto dalla telefonata del medico, che ci ricorda quella provata, in maniera molto più drammatica ed estesa, in Melancholia di Lars Von Trier. Un finale che stava per partire – nella migliore tradizione dei Coen – in un loop con l’inizio, ma che si interrompe dall’inevitabile giudizio finale, che scuote tutti, anche la costruzione del film stesso. Il tornado come giudizio divino, come destino e allo stesso tempo caos. Destino sia dell’individuo, sottolineato dalla telefonata del medico, sia della collettività, rappresentata dalla scuola. Nemmeno i bambini sono innocenti – infatti fumano erba, hanno debiti e angosce come gli adulti. Ma è anche il destino di una nazione, rappresentata dalla bandiera degli Stati Uniti che si sta per strappare, una nazione ormai corrotta e senza salvezza. Ma al contrario di Anderson, che ci da un briciolo di speranza nel finale, i Coen decidono invece di tagliare di netto la scena, e lasciare così a noi spettatori l’intuizione di cosa ne sarà dei personaggi del film e, di rimando, di tutti noi.

Maximal Interjector
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