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Workshop Martin Scorsese: i vostri elaborati!

Ecco gli elaborati degli iscritti al nostro workshop su Martin Scorsese.

VALENTINA BARTALESI

Taxi Driver, corsa del taxi con monologo di Travis

Dovendo scegliere un momento caratterizzante di Taxi Driver (Scorsese, 1976), credo che la sequenza con la corsa del taxi guidato da Travis Bickle (Robert De Niro), culminante nel monologo disincantato (proclamato dallo stesso Travis) sul genere di personaggi che riempiono le notti newyorkesi, possa essere considerata emblematica per più aspetti. Riprendo alcuni punti indispensabili: Travis Bickle, giovane reduce dalla guerra in Vietnam soffre di insonnia, è costantemente solo e l’unico svago a cui periodicamente si abbandona è la frequentazione di un cinema a luci rosse. Per sopperire alla mancanza di sonno decide di improvvisarsi tassista notturno, attività che gli permette di ritagliarsi una panoramica “privilegiata” su un frangente di quotidianità particolarmente sgradevole: tale presa di coscienza però finisce per acuire il senso di alienazione, di insofferenza e favorire l’insorgere della psicosi di cui il protagonista risulta progressivamente vittima. Nel frame in analisi due elementi formali devono subito attirare la nostra attenzione: l’utilizzo della macchina da presa e l’elemento musicale. Mentre lo sguardo di Scorsese scivola sulla città disegnandone le insegne luminose, per poi oscillare dalla carrozzeria bagnata del taxi all’asfalto altrettanto gocciolante e correre infine all’inseguimento delle sagome dei passanti, “i mendicanti, le prostitute, i drogati e gli spacciatori” indicati da Travis, le musiche jazz di Bernard Hermann riempiono l’aria e venano la scena di una malinconia soft. Scorsese genera solo apparentemente una sequenza nostalgica in quanto, tra le tinte “noir” del nero e dei blu, luccicano anche i bagliori più aspri della metropoli che si riflette nella pioggia: i gialli, i verdi e gli aranci, colori che concorrono ad avvolgere la città in un’atmosfera alienante e claustrofobica. I passanti si riducono a macchie, a silhouette colte per pochi attimi, destinate a dissolversi nell’umidità e a rimanere prive di volto. È proprio in questa dimensione al limite del reale che deve essere ricercato il senso di una figura come quella di Travis. Innanzitutto è da segnalare la performance iconica di Robert de Niro che, educato al metodo Strasberg, si immerge integralmente nella personalità di Travis, portando alla luce, attraverso lo sguardo e la gestualità, il profondo malessere che lo obbliga a vivere un’esistenza borderline. Tale mancanza di “allineamento” nei parametri di una vita ordinaria si traduce nell’ambivalenza che il monologo in questione rivela, in particolar modo quando il protagonista mostra di possedere uno sguardo cinicamente realistico sulla fauna “della notte”, pur non chiarendo del tutto se si riconosca o meno come parte attiva di essa. C’è quasi una presunzione di superiorità da parte del tassista, quando ricorda come lui, a differenza di molti suoi colleghi, non fa distinzioni su coloro che si trova ad accompagnare; una necessità di correttezza morale presto dimenticata, considerando che di lì a breve progetterà l’assassinio di un uomo, seppur (e torna il problema del doppio) da commettersi per perseguire (follemente) una buona causa. Ed è proprio il tema dell’ambivalenza, della fluidità che si ricollega immediatamente ad un altro tema, quello dell’identità: Travis modella la sua identità, dalla scelta del nome al modo con cui si presenta fisicamente, con la stessa naturalezza con la quale si muove attraverso i quartieri newyorkesi, almeno due volte in maniera conclamata nel corso del film. Anche per questo motivo Taxi Driver è un viaggio al termine della notte, un “nostos” labirintico e drammatico alla ricerca di una possibile rinascita in cui, tuttavia, nel costante scontro con i “ciclopi” che si presentano sul percorso, il rischio di assumere inconsapevolmente le sembianze di quei mostri è quanto mai reale.

 

LORENZO BIANCHI

Identità di montaggio – Un’analisi dell’introduzione di The Departed

Spoiler

Il titolo The Departed compare dopo ben 17 minuti dall’inizio del film. Questi 17 minuti di introduzione contengono già tutto ciò che Scorsese ci vuole dire con questo film. E non solo. In questi 17 minuti si può trovare tutta l’essenza del cinema di Martin Scorsese. Ha dell’incredibile quanto un remake (di Internal Affairs, del 2002) sia così rappresentativo della poetica di Scorsese. Pressoché ogni tematica ricorrente nella filmografia del regista trova spazio in queste sequenze: c’è la malavita, incarnata qui dal boss Frank Costello (Jack Nicholson); c’è la violenza (è sempre Nicholson che in un taglio improvviso punta la pistola verso lo schermo e spara, come già si era visto fare a Joe Pesci al termine di Quei bravi ragazzi); c’è l’America, dipinta, come spesso da Scorsese, figlia della violenza, figlia anche dell’immigrazione, italiana e irlandese in primis; c’è la chiesa, vista più come una sorta di famiglia allargata, un’appartenenza, allo stesso modo in cui viene vista la mafia. E soprattutto c’è il tema che forse più di qualunque altro caratterizza i film di Scorsese: la ricerca di un’identità. Protagonisti del film sono Billy Costigan (Leonardo Di Caprio) e Colin Sullivan (Matt Damon), due giovani di Boston molto simili, con percorsi di vita differenti, ma che portano entrambi alla medesima fine. Il primo ad esserci presentato è il giovane Sullivan, che troviamo in un bar ad assistere al tipo di vita che si può ottenere se sei uno come Frank Costello: il boss del crimine è una figura affascinante, che pare potersi permettere di dire ciò che vuole e fare ciò che vuole. È lo stile di vita dei “bravi ragazzi” che già aveva affascinato l’Henry Hill di Ray Liotta. Questa scena preannuncia già la fine della storia: Costello fa dare al ragazzo pane, latte e altri alimenti da portare a casa, gli stessi che porterà a casa nell’ultima scena del film, quando verrà ucciso, come a voler dire che tutto comincia da questo momento, la strada che lo condurrà alla sua vita criminosa e alla sua inevitabile violenta fine. I Rolling Stones in sottofondo con “Gimme Shelter” cantano “la guerra, bambini, è ad uno sparo di distanza”. Frank Costello è anche colui che ci mette di fronte al tema dell’incertezza dell’identità: mentre la sua figura è rimasta in un’ombra quasi irreale per i primi minuti del film, ecco che Nicholson esce dall’oscurità e ci illumina con la sua verità, ovvero che “poliziotto o criminale […] quando hai davanti una pistola carica, che differenza c’è?”. Colin impara bene questa lezione, e nell’inquadratura successiva lo vediamo passare da giovane ragazzo che fa i primi passi nella malavita a studente dell’accademia di polizia. Qui si collega la vicenda di Billy Costigan. In un passaggio di scena che per un attimo disorienta lo spettatore, si passa dall’aspirante poliziotto Matt Damon all’aspirante poliziotto Di Caprio, senza che quasi ci si accorga del cambiamento di personaggio. Scopriremo più tardi quanto i due abbiano in comune: non solo i due attori qui presentano una certa somiglianza fisica, ma i personaggi sono entrambi di origine irlandese, entrambi con legami nella criminalità, ed entrambi citano con disinvoltura vari autori, da Hawthorne a Joyce. La sequenza procede con un montaggio alternato dell’addestramento dei due personaggi. Il film ci vuole dire in ogni modo che ha a disposizione, quanto questi due uomini siano legati tra loro. Quanto alla fine dei conti siano simili. Nella scena in cui Costigan si presenta da Sheen e Walbergh veniamo a conoscenza del suo passato, delle connessioni che la sua famiglia ha con Costello e dell’impatto che questo ha avuto sul giovane Billy: il sergente Dignam lo inquadra subito come un ragazzo che si è dovuto districare tra due identità, quella del ragazzo cresciuto in un buon quartiere, con ottimi risultati scolastici, e quello del ragazzo di strada figlio di criminali e buoni a nulla. Billy impara ad adeguarsi a due vite, addirittura pare avere due accenti, abilità che lo porteranno a lavorare sotto copertura proprio con Costello. Fare il poliziotto per lui è forse più un modo per cercare di capire, per mettere un punto alla domanda per cui non ha trovato risposta per tutta la vita: chi è lui veramente? Questa scena dello smascheramento di Costigan da parte del sergente Dignam viene montata in alternanza al primo giorno di lavoro di Sullivan nell’Unità speciale. Egli ci appare, però, più interessato a cosa questo comporti per il suo status, che al suo lavoro. In pochi dialoghi e inquadrature ci viene detto che Sullivan punta ad “arrivare da qualche parte”, ad avere bei vestiti, a sorridere alle donne nei corridoi. Anche lui vuole l’aspetto del poliziotto, ciò che esso comporta, ma non vuole essere un poliziotto. I due protagonisti del film, tenuti sempre separati nella storia fino al finale del film da una sceneggiatura che però è abilissima nel continuare a farceli percepire vicini, si incrociano senza saperlo, davanti all’ufficio del capitano Queenam. Da questa con-fusione del percorso dei due personaggi parte una vera mescolanza di identità: due ragazzi dei bassifondi vivono a contatto con la criminalità, entrambi frequentano l’accademia di polizia. Uno sarà un poliziotto sotto copertura nella gang di Costello, uno sarà un uomo di Costello che farà da infiltrato nella polizia. Sulle note di “I’m Shipping Up to Boston” dei Dropkick Murphys i due si imbarcano nel loro viaggio: una carrellata laterale ci mostra Costigan in prigione, e la macchina da presa pare continuare lo stesso movimento nel riprendere Sullivan sul balcone della sua nuova casa. Uno ripreso in prigione, uno sul balcone di casa sua: entrambi ci appaiono dietro a delle sbarre. La differenza tra i due personaggi è solo apparente. Entrambi arrivano a commettere azioni deplorevoli, ad avere a che fare con furti e omicidi, ma anche a lavorare attivamente con la polizia. Ognuno ha la sua strada. Ognuno fa le sue scelte. Non è chiaro se i due hanno un’idea di chi siano veramente. Criminali e poliziotti. Il bene e il male, come dice il sottotitolo italiano del film. Ma alla fine dei conti…che differenza c’è?

 

CAMILLA GUENDALINA GANDINI

The Departed – Il bene e il male, analisi della sequenza: “Shipping up to Boston”

”I’m a sailor peg and I’ve lost my leg” (sono un marinaio di poco conto e ho perso la mia gamba): queste sono le parole della canzone “I’m Shipping Up to Boston” che accompagnano la scena introduttiva di The Departed – Il bene e il male, remake di un film hongkonghese (Infernal Affairs), girato nel 2006 da Martin Scorsese, premiato poi con l’Oscar come miglior regista. E marinai di poco conto lo sono i due protagonisti della pellicola, William (Billy) Costigan e Colin Sullivan: nati e cresciuti a Southie, il quartiere malfamato di Boston. Entrambi si portano sulle spalle il peso di un’infanzia tutt’altro che tranquilla, trascorsa tra i traffici mafiosi che animavano le strade del loro quartiere. William è cresciuto senza una vera identità, costretto in una tensione continua tra la madre di buona famiglia e il padre invischiato in affari mafiosi; Colin è stato invece “adottato” dal ben noto Francis Costello, spietato e demagogico boss della mafia irlandese della città di Boston. Le loro vite così simili sembrano essere in qualche modo legate da impercettibili fili che li hanno accompagnati, pur senza farli mai incontrare, e continueranno a farlo anche a distanza di vent’anni, quando si troveranno entrambi a far domanda per accedere alla polizia di stato del Massachusetts ma, proprio in tale occasione, i destini dei due sembrano separarsi: Colin viene accettato mentre William viene rifiutato perché giudicato inadatto. Tuttavia al giovane Costigan viene proposto dal comandante Queenan e dal sergente Dignam di entrare a far parte di un’operazione sotto copertura che ha come obiettivo quello di infiltrarsi nella banda di Francis Costello ed incastrarlo. Contemporaneamente lo stesso Colin, entrato immediatamente nell’unità speciale anticrimine, si avvale di questa posizione privilegiata per passare le informazioni della polizia al “padre”, Francis. Sono entrambi due infiltrati: Colin è la talpa di Costello nella polizia, Billy la talpa della polizia nella banda di Costello. In questa fitta rete di rapporti nascosti e maschere da indossare, si assiste all’annullamento dell’identità, o meglio, al gioco d’alternanza di identità fittizie che intrappolano i due protagonisti e li costringono ad un “gioco” in cui il confine tra bene e male è talmente labile da arrivare a pensare che l’uno (il bene) non possa esistere senza l’altro (il male). William e Colin sono prigionieri e questa loro condizione è magistralmente resa da Scorsese nella scena in questione tramite l’alternanza di immagini che presentano i due uomini chiusi tra le sbarre, quelle vere, grigie, fredde e claustrofobiche della prigione in cui Billy è detenuto per rendersi credibile agli occhi di Costello e quelle metaforiche, rappresentate dagli infissi della grande vetrata dell’appartamento di Colin che si affaccia sulla luminosa cupola dorata della State House. L’iniziale correlazione tra i due muta velocemente in opposizione sia fisica sia morale: da una parte William, spettatore che assiste e talvolta partecipa alle nefandezze perpetrate da Costello e soci e, in virtù di questo, psicologicamente tormentato; dall’altra Colin, tanto spavaldo e risoluto a parole quanto, all’effettività dei fatti, si rivela insicuro. Sono gabbie esistenziali del tutto personali che, tuttavia, possono essere facilmente considerate figlie di una prigione ben più grande rappresentata dal contesto sociale e dalle costrizioni che esso implica: la convivenza del bene accanto al male portata all’esasperazione, che non trova un epilogo “giusto” o, in qualche modo, morale. Infatti la caccia alla talpa che si innesca tra i due, una volta resisi conto l’uno dell’esistenza dell’altro, è un procedere a passi svelti e concitati verso il disvelamento dell’altro che tarda ad arrivare ma che, una volta giunto, non consola ma condanna senza operare particolari distinguo tra giusti e non-giusti; ammesso e non concesso che, alla fine dei conti, ci sia una reale differenza tra giusti e non-giusti, tra buoni e cattivi. A tal proposito, sono illuminanti le parole pronunciate da Francis: “Quando avevo la tua età, i preti ci dicevano che potevamo diventare poliziotti o criminali. Oggi quello che ti dico io è questo: quando hai davanti una pistola carica, qual è la differenza?”. E dunque quale speranza si può nutrire in un mondo dove a trionfare è il male, dove, anche in una lussuosa terrazza che guarda sull’orizzonte luminoso, uno sporco e sudicio ratto è pronto a rodere tutto ciò che si trova lungo il suo cammino?

 

STEFANIA PIZZI

Silence, l’abiura di Padre Rodrigues

La sequenza della durata di circa 7’, che mostra l’abiura di Rodrigues, è intensa sia nei contenuti che nella forma, poiché è costruita con effetti visivi e sonori raffinati posti nei momenti e nei punti giusti.

-E’ sera. La scena si svolge in un campo prigionia, long shot iniziale dall’alto, alle spalle dell’Inquisitore.

-Padre Rodrigues, ormai ossessionato e stremato da dubbi e sensi di colpa (tutti aspettano la sua rinuncia dalla quale dipende la vita di cinque prigionieri cristiani appesi a testa in già nel pozzo a dissanguarsi) giace nella gabbia di legno. Parla da solo contro la parete, parla a Gesù; i rumori esterni si fanno assordanti, sbatte i pugni per attirare l’attenzione, la mdp si sposta fuori e dentro la gabbia/prigione, prevalentemente dal basso, alternando primi piani a medium shot.

-Arriva l’Interprete e con esso Padre Ferreira (una volta padre spirituale di Rodrigues, ora convertito in vero e proprio prete giapponese).

-Padre Ferreira entra nella gabbia: dialogo serrato fra i due, i toni sono concitati, inquadratura frontale dei due da fuori la gabbia.

[E’ qui che i quesiti fondamentali e i dubbi più spigolosi del film riguardo la Fede e il silenzio di Gesù vengono quasi gridati oltre che da/a Rodrigues, anche allo spettatore: il ricatto della tortura e della morte bastano a tradire la propria Fede al fine di salvarsi? Il silenzio di Gesù di cui si lamenta Padre Rodrigues non è il silenzio di una Fede tutta interiore, di una dimensione intima del credente? Non è forse vero, come dice Padre Ferreira per far crollare nell’abiura l’altro Padre, che calpestare e rinunciare a Dio è l’atto d’amore più doloroso che si possa compiere, poiché vuol dire salvare le vite di coloro che Gesù stesso ama? Che valore ha pregare in una situazione simile, visto che Gesù pare non rispondere?]

-Padre Rodrigues viene portato di forza fuori dalla gabbia e posto dinanzi alle cinque sagome appese lamentose, medium long shot.

-Dinanzi a lui viene messo a terra il fumi, l’effige di Gesù che i Giapponesi chiedono ai Cristan di calpestare con un piede in segno di apostasia. Padre Rodrigues, disperato, si fa avanti lentamente, singhiozza e guarda a terra il ritratto sacro.

-Primissimo piano di Rodrigues, il sonoro diegetico scompare come per sottolineare lo stato di trance del protagonista. Si fa silenzio. Si sente una voce calma che parla a Rodrigues (o è la voce stessa di Rodrigues?), lo tranquillizza e lo invita a calpestarlo. Primissimo piano dell’effige.

-L’uomo si piega in avanti, movimento di ralenti, innesto rapido di un’immagine di Cristo (la stessa che compariva a Rodrigues da piccolo), mdp inquadra lateralmente il piede che calpesta il fumi. Le mani e il corpo del Padre crollano a terra sopra l’effige.

-Primissimo piano di Padre Ferreira, con dietro l’Interprete. Ritorna il sonoro dei lamenti dei prigionieri.

-Stesso long shot dall’alto dietro le spalle dell’Inquisitore a seguito di un cenno fra questi e l’Interprete col capo. Si è compiuto ciò che doveva compiersi.

-L’Interprete sempre in ralenti con alle spalle delle fiamme alza un braccio in sincrono con le fiamme per avvisare di sollevare i prigionieri dal pozzo.

-Mentre si ode come un canto del gallo, i prigionieri vengono sollevati; medium long shot su di essi, a lato per terra Ferreira consola Rodrigues stremato.

La vita del Padre perduto continua per anni fino alla morte, in un Giappone definito ‘palude’ in riferimento al fatto che la Fede cristiana non vi ha trovato

terreno fertile. Lo spettatore sino all’ultimo si chiede, grazie ad un regista astuto e complice, se davvero Padre Rodrigues si è trasformato e ha dimenticato il suo Dio. La scena finale è beffarda, non la sveliamo.

Come dice Padre Ferreira, alludendo a un saggio detto giapponese:”montagne e fiumi si possono spostare, ma la natura dell’uomo non si può spostare”.

 

 

 

 

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