News
Workshop Nouvelle Vague: i vostri elaborati

Al termine del nostro workshop sulla Nouvelle Vague, i partecipanti hanno potuto scrivere un’analisi di una sequenza o un momento emblematico dei film trattati. Ecco i contribuiti più interessanti:

 

Alessandra Provera

Hiroshima mon amour (Alain Resnais, 1959)

È notte fonda, a Hiroshima, ma la vita non si ferma. I locali sono aperti, le luci accese.

Sono passati solo quattordici anni dal bombardamento atomico che ha sconvolto il mondo e il giovane regista Alain Resnais presenta il suo primo lungometraggio Hiroshima mon amour alla dodicesima edizione del festival di Cannes.

Accompagnato dalla bellissima e struggente sceneggiatura di Marguerite Duras, Resnais mette subito in mostra il suo coraggio con uno degli incipit più celebri del cinema francese: i corpi nudi dei due protagonisti (un architetto giapponese e un’attrice francese, interpretata da Emmanuelle Riva) si stringono sensualmente in un amplesso. La loro pelle, ricoperta prima dalla cenere, poi da sudore e lacrime, brilla riempiendo l’inquadratura.

Con un sapiente gioco di dissolvenze a queste forme morbide e appassionate presto si intrecciano spigolose immagini della città: simmetriche inquadrature di pesanti strutture architettoniche in cemento su cui danzano riflessi di luce, come residue fiammelle di una battaglia finita che stuzzicano nella nostra mente le immagini di Hiroshima che tutti conosciamo dai libri di storia, fatte di riflessi dalla forma umana proiettati sul cemento.

Sulla voce della protagonista, che dipinge con un dialogo affascinante il suo rapporto con la città, il regista ci cattura con una fotografia raffinata e dal potente impatto emotivo. Dopo essere venuti a conoscenza di un evento così mostruosamente disumano, esserne restati inorriditi, disgustati, affranti, dopo aver odiato gli artefici, aver protestato nelle piazze, dopo che il tempo ha sbiadito il ricordo e nutrito l’indifferenza, alle coscienze di chi ancora non dimentica resta solo una domanda: “Perché?”.

Siamo a Hiroshima per una spiegazione. Siamo a Hiroshima per provare a capire.

Nel suo disperato tentativo di comprendere, la protagonista ci porta prima all’ospedale, poi al museo cittadino, non una ma quattro volte.

“Quattro volte al museo, a Hiroshima.”

Un museo fatto di plastici e ricostruzioni, brandelli di città e carne esposti assieme dietro a vetrine disadorne. Lunghe didascalie e pannelli espositivi riempiono il vuoto, nel tentativo di tenere assieme il nulla che è sopravvissuto, anzi “restato” dopo il 6 agosto 1945.

In Giappone esiste un termine preciso per indicare chi ha assistito al bombardamento e non è morto. Hibakusha: persona che ha subito l’esplosione. Nulla è veramente sopravvissuto a quel mattino d’estate. Tutto ciò che sappiamo o crediamo di sapere, è nulla. Nel dialogo iniziale di Marguerite Duras, è la voce stessa di Hiroshima che ce lo ripete allo sfinimento. Tu non hai visto nulla, tu non sai nulla. Di cosa piangi? Per cosa ti disperi singhiozzando? Tu non conosci nulla.

La storia d’amore tra i due protagonisti cresce sulle ceneri dei loro traumi passati, entrambi sono stati colpiti violentemente dalla guerra: Lui, a Hiroshima, ha perso la famiglia, Lei, a Nevers, ha perso l’amore. Svariati flashback della cittadina francese di Nevers e del passato della donna si intrecciano al presente tra le vie di Hiroshima diventando un unico tempo, plasmando una realtà ibrida e irraggiungibile. Il racconto riesce ad essere al tempo stesso personale e universale, Resnais sceglie di non attribuire nomi propri ai suoi personaggi, preferisce invece identificarli usando i loro stessi paesi di provenienza: due cittadine agli angoli opposti del mondo.

Con il racconto della donna, che la vede “giovane e innamorata a Nevers”, compiamo un viaggio introspettivo nell’anima di una persona che cerca di comprendere il dolore dell’umanità per arrivare a sopportare il proprio dolore.

È grazie a tutto questo che Resnais, pur non provenendo dall’ambiente della critica dei Cahiers du Cinéma, firma con Hiroshima mon amour un capolavoro di tecnica e poesia che si fa di diritto manifesto della Nouvelle Vague, movimento provocatore e rivoluzionario che, a partire da quegli anni, prenderà piede finendo per segnare una svolta nella concezione tradizionale di cinema e siglando la nascita del cinema autoriale moderno.

È notte fonda a Hiroshima, ma la vita non si ferma. Le luci ancora accese, come nella stanza di un bambino che ha paura del buio.

 

Anna Elena Paraboschi

La Jetée (Chris Marker, 1962)

La Jetée è un ciné-roman composto quasi esclusivamente di immagini fisse in bianco e nero, su cui un commento in voice-over traccia l’arco della narrazione. La stessa immagine apre e chiude il film: un uomo corre tra la folla sul molo d’imbarco di Orly, viene colpito da uno sparo, muore. Ciò a cui assistiamo è un cortocircuito temporale, in cui l’uomo ucciso e un bambino testimone dell’accaduto sono la stessa persona, attori di un paradosso che proietta il suo potenziale traumatico su un’esistenza futura e insieme già trascorsa. Il tema dell’opposizione tra ricordo e oblio è incarnato nella vicenda del protagonista, confinato in un mondo futuro con i sopravvissuti alla terza guerra mondiale, e mandato nel presente per cercare di deviare il corso della storia e di evitare così una guerra catastrofica. Qui ritrova la donna di un ricordo di quando era bambino – ricordo che gli aveva permesso il viaggio nel tempo – e, innamorato, non riesce più ad abbandonarla. Rifiuta la salvezza per rimanere nel passato, dove però, di nuovo, sullo stesso molo dell’aeroporto di Orly, il desiderio incontra la realtà inderogabile della morte già vissuta. Immagine del passato e coscienza del presente si trovano ora in equilibrio, in una cesura del pensiero che si apre e chiude all’infinito. La Jetée consiste in una densa stratigrafia visiva, una serie di immagini che sorgono inattese le une dalle altre e si condensano nel volto della donna tenacemente preservato dall’oblio. È in questo volto che il film conosce il suo momento epifanico, con l’animarsi e l’ammiccare dello sguardo di lei, uno sbattere di palpebre che riporta allo sfarfallio dell’esperienza cinematografica, alla successione impercepibile dei fotogrammi. Si potrebbe considerare La Jetée non solo come un racconto visionario, in cui passato e futuro si incrociano, ma come la ricapitolazione di due modelli temporali elaborati dalla modernità: quello dialettico in cui il passato irrompe nel presente fino a modificarlo, e quello freudiano, in cui il passato vive nel presente come fantasma, e ne costituisce la componente perturbante e indicibile. Due modelli che collassano sotto la pressione della ripetizione: il passato non torna per redimere il presente o per dargli un senso, ma per obbligarlo a ricominciare da capo e a vivere quel trauma all’infinito.

 

Lucia Cirillo

Fin dal primo respiro, mon amour

Sono essenzialmente due i titoli che primi fra tutti mi tornano in mente quando si parla di Nouvelle Vague: “Fino all’ultimo respiro” e “Hiroshima non amour”, visti in periodi differenti sia per età che per maturazione personale. Lo preciso perché credo che conti molto il tempo in cui certi film decidono di proporsi nella nostra vita, se poi assecondano pure cambiamenti di assetto così profondi da rivoluzionare assunti e visione del mondo. I due citati film hanno fatto proprio questo per me, ma se di “Fino all’ultimo respiro” ho amato soprattutto la volontà per niente celata di un rovesciamento delle tecniche del cinema classico – oltre alle suggestioni di una trasgressione sia formale che concettuale relative all’idea di intreccio narrativo – è con “Hiroshima non amour” che ho davvero compreso la potenza deflagrante di un modo così nuovo di raccontare la Storia, l’individuo, la contemporaneità, la dinamica dei contrasti e la cosiddetta “storia degli effetti e delle determinazioni” (Gadamer).

Il film trova nel pretesto del racconto di un incontro d’amore, in apparenza fugace, tra un’attrice francese ed un architetto giapponese politicamente impegnato, di fornire, tra l’altro, una riflessione sulla necessità della memoria e del ricordo per formare coscienza di ciò che siamo, attraversando il costante corto circuito con la necessità di dimenticanza e oblio per proteggerci da traumi e dolori troppo forti. Basterebbe anche soltanto soffermarsi sull’incipit folgorante: il tempo dell’amplesso equivale a quello di una lunga carrellata di fotografie, manichini, frammenti di documentari sugli effetti della bomba atomica, mentre una voce narrante accompagna quel lungo segmento raccontando l’orrore assieme ad un tormento atavico e irrisolto, evocando mancanze e ricerca costante di un oblio consolatorio.

Ci sono frasi che ancora mi risuonano “non è rimasto altro”, “quattro volte al museo”, “tu non hai ancora visto niente” che sembrano poggiarsi sulle immagini di quella lunga carrellata come a fare da legante tra sensazioni, ricordi e mero racconto dei fatti. Il film è l’incontro di due mondi che si confrontano a dispetto di ciò che è stato ma anche una riflessione sul ruolo delle arti visive, dalla fotografia, al cinema, ai documentari e alla loro capacità di essere non soltanto custodia di memoria, ma anche di ricostruzione ed interpretazione della storia stessa, proponendosi come archivio di verità, oltre che di finzione. Nel film tutto questo accade passando per due soli personaggi, di cui non a caso non conosciamo i rispettivi nomi e di cui la parte più debole è la fragile donna francese, con i suoi traumi, i suoi ricordi tormentati e indefiniti. Eppure, per la Storia, è lei a rappresentare il mondo dei vincitori. Non parla il giapponese, lui invece parla bene anche il francese. “A Nevers non tornerò mai più. A Nevers sono stata più giovane che mai”. È in questa frase che ho colto un messaggio critico ma amorevole al cinema di una volta, ormai incapace di diventare adulto.

Poco dopo, quando quell’amore clandestino ansima per diventare dell’altro, lui le dirà “Tra le migliaia di cose della tua vita io scelgo Nevers” a testimoniare ancora una volta l’importanza del passato, per quanto doloroso o sbagliato, per diventare esattamente ciò che si è: soggetti d’amore. Ciò che unisce davvero i due amanti è proprio la condizione del ricordo. Particolarmente evocativa, infine, ho trovato la scena dell’anziana donna che in un luogo pubblico si frappone tra i due amanti, dopo una notte in cui hanno deciso di non vedersi più, che parla con l’uomo nella loro lingua, escludendola di fatto dalla loro conversazione. Una distanza fatta di lingua e di storia non comune. Che può voler dire molto. O forse proprio nulla.

 

 

 

Patrizia Camorali

Questa è la mia vita di Jean-Luc Godard: l’ultima scena

Due cattivi che si fronteggiano, in mezzo lei, l’ostaggio: finisce che entrambi le sparano. Carrello retrocede, forse un inchino? No. Una scena quasi ridicola, ma perché tutti e due le sparano? E lei, niente? Non è la classica scena, quella che ci si aspetta, quindi grazie, veramente grazie. Per aver voluto cambiare le cose. Ma che mi importa di un finale così? Non c’è il rischio che quando si ha l’obiettivo di criticare si resti agganciati al modello di riferimento, che si voleva criticare, e che torna in mente, nel bene e nel male? E poi un dubbio: le donne: infami, traditrici, puttane, nessuna sposa in nero?!

Categorie

Maximal Interjector
Browser non supportato.