News
Workshop Terrence Malick: i vostri elaborati!

Al termine del workshop dedicato alla carriera di Terrence Malick, abbiamo chiesto ai partecipanti di redarre un elaborato su una sequenza a scelta diretta dal cineasta statunitense. Ecco i lavori dei corsisti.

Simona Bassano

Miriadi di solitudini racchiuse in un solo uomo-natura. L’uno e il tutto nella ricorsività degli schemi compositivi del cinema di Malick

Le figure che popolano i lavori di Malick, soprattutto nelle sue ultime produzioni, si affastellano sullo schermo.
I protagonisti si articolano in geometrie variabili che li avvicinano e li allontanano e ne disegnano lo spazio vitale; i personaggi di sfondo, invece, sono come figure che si sovrappongono, come agli angoli delle pagine di quei libri che, se scorse velocemente, danno la sensazione del movimento. Tutte diverse eppure tutte uguali, si muovono come un corpo unico, in una fluidità fatta di scatti. Tutte queste figure finiscono per somigliarsi al punto di diventare indistinguibili. La mancanza relativa di qualità distintive dei personaggi consente a Malick di descriverli sia come frammenti – singoli, isolati, incompleti, informi – che come parte indispensabile di un tutto che aspirano a raggiungere. Negandoci la possibilità di conoscerne un vissuto che ne giustifichi il sentire, i desideri e l’origine della loro prostrazione, il regista può mescolarli gli uni con gli altri e gli uni dentro gli altri, rendendoli manifestazione e respiro, elemento fondato e, al contempo, fondativo, di una sorta di spirito e esperienza universale. L’invisibile che spinge così forte dall’interno e dall’esterno e che ci tiene saldamente tutti uniti. Questo rapporto tra frammentazione e ricongiungimento, tra dispersione e unità è dato, nel corpus complessivo dell’opera malickiana, dalle citazioni e dagli schemi ricorsivi del suo cinema, a cominciare dagli intarsi allegorici e attrattivi, innestati nel fluire delle riprese dei suoi protagonisti, delle immagini di una natura maestosa e simbolica, permeata dal sentimento dell’umano e che però resta totalmente distante e indifferente a esso. Sono presenti molti parallelismi in tal senso nella cinematografia di Malick e molto simili sono le sequenze che descrivono il tormentato viaggio interiore di Sean Penn in The Tree of Life, di Christian Bale in Knight of Cups e di Ryan Gosling in Song to Song. In tutti questi casi le figure di Malick sono alla ricerca di una pacificazione, di un’identità ricomposta (“damnation is when the pieces of your life never come together”, bisbiglia la voice over di Rick in Knight of Cups), di un’epifania salvifica e per questo intraprendono un viaggio esistenziale alla ricerca di un significato, attraversando, nei momenti di più cupa devastazione interiore, un mondo desolato o selvaggio, ritratto nella sua stupefacente, tetra, minacciosa e crudele bellezza.
Eppure la natura rappresenta allegoricamente l’unica possibile meta di questo anelito di conciliazione, ripresa sempre nella sua ieratica imperturbabilità. A essa i personaggi di Malick, interrotti e frammentati, scoprono di doversi ricongiungere per ritrovare senso e integrità.  La vita è, dunque, un viaggio costellato di dolore e incomprensione che ci spinge verso le colline blu agognate da Jack Ball (“How to get to those other shores, to those blue hills?” ripete in La sottile line rossa): un orizzonte di pacificazione esistenziale che sfugge di continuo, fino a quando non si accetti la propria incompiutezza, la propria finitezza e la propria mortalità.
Solo così, attraversando il dolore, superando il rumore delle parole, è possibile, secondo la lezione che sembrano suggerire il poetico lirismo degli accostamenti e della simbologia delle immagini montate da Malick, potremmo finalmente ricongiungerci alla nostra parte più vera, a quel tutto a cui apparteniamo e del quale non siamo che frammenti, giustapposizioni casuali, concatenazioni randomiche e rapsodiche.

 

Cecilia Leardini

TO THE WONDER

Uscito nel 2013, To the Wonder è il film di Terence Malick che più esplicita la tematica religiosa e la formazione cattolica del regista. Padre Quintana ci viene presentato quando ormai la relazione tra Marina (Olga Kurylenko) e il suo compagno Neil (Ben Affleck) ha raggiunto il suo climax e, anzi, si potrebbe dire, ha già cominciato ad avere le prime crepe. Dopo esser stato reso partecipe del loro idillio, lo spettatore comincia ad accorgersi che qualcosa non sta funzionando nella relazione tra i due: Neil parla sempre poco e il matrimonio è un argomento tabù. Il personaggio di Bardem entra in scena inizialmente solo tramite la voce: vediamo inquadrati Marina e Neil che giocano con un neonato e udiamo una voce fuoricampo che spiega come l’amore tra uomo e donna rischi di seccarsi se non alimentato dall’amore di Dio. Solo dopo alcuni secondi, con un cambio di scena, scopriamo che questa è la voce di Padre Quintana che sta tenendo un’omelia, a cui assiste anche Marina, sulla natura del matrimonio. Da questo momento in poi Malick userà le omelie del sacerdote come elementi narrativi: vedremo diverse volte i personaggi alle sue messe e in un qualche modo le sue parole aiuteranno a spiegare la vicenda dei due, a capire se e dove stanno sbagliando, cosa manca al loro amore, quasi un coro greco che commenta i fatti e spiega la situazione, in un rapporto di connotazione reciproca tra immagini e parole. Ed è qui che lo spettatore comincia a capire che effettivamente al rapporto tra Marina e Neil manca qualcosa e rischia di seccarsi come quel ruscello che non viene alimentato dall’amore divino. La scena poi però si sposta. Lo spettatore viene portato in un ambiente completamente diverso da quelli mostrati sin ora. Vediamo delle case fatiscenti e il sacerdote che sopraggiunge davanti alla porta di una di queste. Mentre ancora sentiamo la voce di Marina in sottofondo, il sacerdote indugia di fronte alla porta, non entra. Lo sguardo è perso e nell’incontro con una giovane ragazza madre non dice una parola. Di nuovo di fronte al portone di una casa malmessa e disordinata Quintana tituba, non bussa, si guarda intorno e se ne va. È solo a questo punto, mentre ancora scorrono immagini che informano lo spettatore della realtà degradata di questa periferia – tema che tornerà poi potentemente in The voyage of time – che la voce fuoricampo di Padre Quintana, questa volta però in spagnolo, ci rende partecipe del pensiero del sacerdote, con una tecnica tipica del cinema di Malick. La compenetrazione tra parola e immagini è fortissima: la fatica del personaggio, suggeritaci già tramite le immagini, i suoi atteggiamenti e i suoi silenzi è chiarita dai suoi pensieri, che definiscono meglio le sue esitazioni, ma anche la degradazione di questa realtà, in cui non sembra emergere nulla di buono e Dio sembra altrove. Anche il sacerdote come i due protagonisti sta vivendo una crisi. La crisi di Padre Quintana è una crisi umana e di fede in un Dio che non si fa trovare. «Sei presente ovunque. Eppure, io non posso vederti» dice rivolgendoglisi e nel dirlo Malick ce lo mostra ancora silenzioso, impotente di fronte alle situazioni di abbandono a cui lui, come sacerdote, dovrebbe portare conforto. Se ne va solitario e titubante per la strada e subito dopo lo vediamo in casa, da solo, che spegne le luci. È da notare come piano piano si chiuderà sempre di più nella sua dimora, tanto grande quanto desolata. Ora spegne le luci, più avanti nel film chiuderà le tende e più avanti ancora, barricato dentro a luci spente e tende chiuse, eviterà di aprire ad una donna che lo sta cercando. Malick arricchisce il tutto con inquadrature a cui si potrebbe dare una lettura simbolica. Per alcuni secondi ad esempio vediamo inquadrata una sedia solitaria e storta nel portico della casa di Padre Quintana, forse segno scelto dal regista per connotare ancora di più la solitudine del personaggio.
È solo alla fine della sequenza che ci ha fatto scoprire questo personaggio che emerge il dato più interessante. La voce di padre Quintana in ultima battuta afferma: «Il mio cuore è freddo. Duro» e proprio mentre ciò viene detto vediamo inquadrati Marina e Neil dentro ad una lavanderia a gettoni. Forse le parole con cui il sacerdote si descrive quindi non valgono solo per lui, ma anche per i due protagonisti, in particolare Neil. È lui che viene inquadrato quando il cuore viene definito duro. È lui che durante tutto il film si mostra scostante, cupo e silenzioso, come lo vedremo poche scene dopo, quando Marina gli prenderà la mano e lui se ne andrà. Il silenzio di Padre Quintana è anche quello di Neil, una durezza e freddezza che lo manterranno sempre titubante su che strada intraprendere con Marina fino alla fine del film. E Marina lo sa. Nella scena successiva affermerà, mentre Neil sta guardando un’altra donna: «Scrivo sull’acqua ciò che non oso dire» segno della preoccupazione che nutre per il loro rapporto.
La scena analizzata quindi, oltre ad essere un buon saggio del rapporto che Malick realizza tra immagini e parole, è rilevante non solo perché ci è stato presentato un personaggio come quello di Quintana, ma anche perché viene da qui in poi instaurato un sottile parallelismo tra le vicende del sacerdote e dei due protagonisti. Le sue parole – sia i suoi sermoni in inglese, sia i suoi pensieri più intimi e sofferti in spagnolo – commenteranno lo sviluppo della vicenda amorosa e l’accompagneranno nella crisi, mentre lui stesso, come abbiamo visto, vive in questa crisi, molto vicino a Neil, e non è un caso se alla fine i due si risolleveranno insieme, uscendo da questa condizione di afasia e durezza che li ha trattenuti per tutto il film.

Maximal Interjector
Browser non supportato.