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Workshop Wes Anderson: i vostri elaborati!

Ecco gli elaborati degli iscritti al nostro workshop su Wes Anderson.

SIMONA BASSANO
Rushmore

 

Wes Anderson è spesso amato per il tono scanzonato e la gradevolezza estetica delle sue pellicole, la raffinatezza del gusto e il vintage chic e borghese dei suoi protagonisti. Senza negare l’appagante resa estetizzante dei suoi film, il suo tratto peculiare risiede, però, nella capacità di bilanciare perfettamente il tono scanzonato dei suoi racconti con la profonda malinconia dei suoi protagonisti, egoisti ma indifesi, privi di punti di riferimento, in cerca di una collocazione nel mondo che guadagni loro l’affetto e il riconoscimento degli altri. Si tratta di personaggi intrappolati nelle proprie paure: vittime di un perenne senso di inadeguatezza, non possono che costruirsi un mondo artificiale di cui si sforzano (spesso con scarsa fortuna) di essere gli indiscussi eroi, siano essi adulti mai cresciuti o bambini proiettati in comportamenti grottescamente matura.
L’artificiosità della messa in scena – dalla palette dei colori ai movimenti della macchina da presa, al montaggio, alla cura dei dettagli della scatola di cioccolatini in cui si muovono i protagonisti – è funzionale a rendere questo concetto. La bellezza dei film di Anderson è dunque nel modo leggero e stravagante in cui rappresenta la sofferenza dei suoi protagonisti e questo è evidente anche in sequenze “minori” di film ancora acerbi. Nella sequenza della piscina di Rushmore, ad esempio, è già possibile intravedere tutti i temi più dolorosi della narrazione andersoniana, calata nell’universo ironico e drammatico insieme, tipico del suo cinema.
Blume è ingabbiato in una famiglia che non lo ama, i figli lo ignorano, la moglie quasi certamente lo tradisce. La maschera del suo viso, dietro l’imperturbabile indifferenza al disinteresse familiare, al vuoto affettivo che lo circonda, appare allo stesso tempo cinica e sardonica. Si ribella e dà allo stesso tempo una ragione al distacco e al disgusto dei suoi familiari con i suoi dispetti da ragazzino. Giunta al colmo la misura, con un gesto simbolico, Blume conquista il trampolino e si immerge fino al fondo della piscina e lì resta, senza dare alcun indizio di voler o poter uscire da questa condizione di inabissamento emozionale e, per paradosso, di sottrazione emotiva. L’acqua confonde i confini delle cose, isola sensorialmente, a suo modo anestetizza dal dolore, altera la percezione di sé ed è naufragio e rinascita insieme: nell’antitesi tra la necessità di liberarsi del contesto oppressivo inabissandosi e la fatica di trovare un modo per ritornare e restare a galla, trova spazio la creazione di senso da parte del regista. Il freak nel cinema di Anderson è emarginato dalla comunità, che ne alimenta così l’alienazione e la sofferenza, ma al contempo, l’isolamento protegge chi è fragile dalle pressioni delle regole sociali. Per trovare una collocazione nel mondo, i personaggi di Anderson devono compiere un viaggio catartico, immergersi in acque insidiose perché possano, alla fine, giungere all’accettazione del sé e alla rinuncia al mondo fittizio della rappresentazione del sé.

 

IRENE FEROCE
The Royal Tenenbaums

Margot Tenenbaum. Algida, bionda, colta, praticamente perfetta (se soprassediamo su quell’anulare di legno…). Una donna che, nonostante abbia avuto tutto dalla vita (una vita che, se non fosse stato per l’adozione, sarebbe stata un’esistenza ottusa, circondata da zotici, persa nell’altrettanto sperduto stato dell’Indiana), è infelice.
Sposata a un famoso neurologo, Raleigh St. Clair, in realtà non lo ama: trascorre metà delle sue giornate isolata a mollo in una vasca da bagno guardando la tv e fumando (ma di nascosto: le sigarette sono il grande segreto di Margot, un segreto custodito gelosamente dall’età di dodici anni e infatti quando il marito scopre il tabagismo della sua signora rimane basito). Lui, nonostante lei lo tratti con freddezza, è sempre molto premuroso e rispettoso: le chiede se desidera mangiare qualcosa e aspetta che lei gli apra la porta senza forzarla a farlo. Questa porta è la rappresentazione fisica della loro distanza emotiva, della barriera presente tra marito e moglie.
Margot è innamorata di Richie, di cui è la sorella adottiva: pur non essendo veramente fratelli, questo legame di parentela “giuridica” complica l’intera faccenda (già difficile di per sé). Ma anche lui è fonte di sofferenza, visto che per molto tempo, dopo il suo tracollo durante una partita di tennis, rimane lontano da lei girando il mondo in barca. Il loro legame è molto forte, sebbene non sia esplicitato con atteggiamenti fisici passionali: rimane tutto molto “aristocratico”, quasi asettico; anche gli abbracci, seppur stretti, sembra presentino un’invisibile cortina trasparente. In compenso è caratterizzato da gesti plateali, come la fuga nel museo o il rifugiarsi nella tenda da adulti.
La più grande delusione per Margot è suo padre Royal, che non perde occasione di sottolineare come lei sia la sua figlia adottiva, che non si ricorda il suo secondo nome e che esprime un giudizio indelicato sulla pièce che Margot mette in scena quando è appena una bambina.
In definitiva, Margot è una donna che, pur avendo tutto, almeno materialmente parlando, non ha quasi nulla dal punto di vista affettivo ed è, fondamentalmente, sola.
Solo verso il termine del film, finalmente troverà la serenità accanto a Richie, libera di portare avanti la loro relazione alla luce del sole ma nel contempo perderà il padre Royal (nel finale infatti tutti i personaggi sono riuniti al cimitero per il funerale del capofamiglia). Insomma, Margot sembra purtroppo destinata a non essere mai del tutto felice.

 

ORAZIO TURNONE
Felicità in Slow Motion, scena tratta da I Tenenbaum

Margot composta scende dall’autobus Green Line, verde come la speranza, con la sua pelliccia e la borsa al gomito. Richie la guarda avvicinarsi pensoso, ammirato, felice.

C’è un’aria soffusa fatta di perfezione inespressa e di parole raccontate dagli occhi.
C’è una colonna sonora che racconta di un mondo fatto di un tempo lontano e magico.
E infine c’è quell’attimo di silenzio, attesa della felicità.
La tecnica dello slow-motion è forse l’escamotage cinematografico più vicino alla realtà usato da Wes Anderson, che con le sue perfette gabbie iperrealiste e le geometrie fotografiche spesso sembra raccontarci mondi inesistenti, fatti di teatro e romance britannico.
Se da un lato c’è la realtà che viviamo ogni giorno e che presenta asimmetrie e scale cromatiche troppo spesso degradanti (che poco hanno a che vedere con l’estetica di Wes Anderson), se siamo più che coscienti che la quotidianità non è fatta di attenzione ai dettagli, ma di vestiti indossati a caso e di cibo mangiato per strada e sappiamo fin troppo bene quanto le nostre parole siano spesso troppe e quindi prive della profondità del “what’s so funny?” che Margot rivolge a Richie dopo anni, al contrario lo slow-motion è tutto dentro di noi.
E non solo quando facciamo jogging e con le cuffiette nelle orecchie pensiamo di essere nel bel mezzo di “Bittersweet symphony”.
Lo slow-motion nasce come tecnica per sottolineare momenti particolarmente significativi all’interno del film: è lenta la morte di un protagonista, è lento il bacio arrivato dopo 2 ore di pellicola ed è lentissima la camminata verso il momento di svolta.
È un fatto del cinema. Da spettatori l’accettiamo. Va così.
Quello che va contro ogni senso logico è che sono i nostri attimi migliori ad essere fatti di slow-motion.
Per davvero.
La prima volta che abbiamo visto la ragazza della nostra vita, davvero abbiamo avuto tempo a sufficienza per guardarla, imprimercela nella memoria, per pensare a quante volte avremmo fatto l’amore con lei, a quante volte avremmo litigato e a quello che avrebbero detto di lei i nostri amici.
La prima volta che abbiamo preso in braccio nostro figlio, davvero siamo riusciti a pensare a tutto il bene del mondo, a impegnarci davanti a lui a non abbandonarlo e al nuovo significato che assumevano i termini “genitore” e “pannolino”.
La prima volta che abbiamo fatto pipì nella tazza senza l’aiuto di nessuno abbiamo avuto tutto il tempo di pensare che eravamo diventati grandi, indipendenti e autonomi, mentre nella nostra testa ascoltavamo tutta “Eye of the tiger”.
Lo slow-motion è la base dei momenti belli della nostra vita. È quando dentro di noi sentiamo un attimo slow-motion che sappiamo che la felicità è dietro l’angolo e che già nel nostro cervello o nel nostro stomaco si stanno registrando momenti di grande vita.
Ed è per questo che riusciamo a relazionarci con naturalezza a personaggi complessi come i due fratellastri de I Tenenbaum: l’incontro di Margot e Richie sulle note di “These days” di Nico è una sottolineatura della lentezza. Quella lentezza in slow-motion che ci ricorda i nostri brevi e infiniti attimi di felicità.

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Persone

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