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Workshop Xavier Dolan: i vostri elaborati!

Al termine dei workshop dedicati al cinema di Xavier Dolan (quello tenuto a Milano e quello tenuto a Roma), abbiamo chiesto ai partecipanti di redarre un elaborato su una sequenza a scelta diretta dal giovane regista. Ecco i lavori dei corsisti suddivisi nei due differenti gruppi!

ROMA

Anna Galluzzi

LAURENCE ANYWAYS

Laurence Anyways conferma la grande capacità del regista canadese di catturare l’attenzione dello spettatore, trascinandolo dentro il film senza mollarlo fino alla scena finale.
La storia raccontata in Laurence Anyways è quella di Laurence (Melvil Poupaud) e della sua compagna Fred (Suzanne Clément). Nel giorno del suo 35° compleanno Laurence confessa a Fred il suo desiderio, a lungo represso, di diventare una donna. All’interno di un rapporto di grande intensità e connessione quale è quello tra Laurence e Fred, questa rivelazione è come una bomba che frantuma tutti gli equilibri, sebbene Fred decida – dopo un momento di grande crisi – di stare accanto al suo compagno.
I due dovranno affrontare, nell’ordine, le famiglie (la reazione della madre anaffettiva di Laurence, l’incomprensione della sorella di Fred); il mondo del lavoro (Laurence è un insegnante di scuola superiore e dunque si espone alle preoccupazioni e alle critiche di colleghi, genitori e studenti); la società (appena comincia a vestirsi da donna Laurence dovrà fare i conti con gli sguardi e la riprovazione, fino alla molestia e alla violenza, del mondo esterno nella sua nuova condizione che in un attimo lo ha trasformato da “integrato” a “emarginato”).
All’interno del caos che investe la sua esistenza, il punto centrale della storia raccontata da Dolan è però il rapporto tra due persone che si amano, e si amano di un amore intenso e profondissimo, e la tensione insanabile tra la necessità ineludibile di essere se stessi e di cercare la propria strada (necessità che è di Laurence, ma è anche di Fred) e il valore e il significato che questo legame dà alla vita di ciascuno di loro.
Man mano che la storia va avanti, vediamo srotolarsi davanti a noi gli innumerevoli tentativi di Laurence e Fred di tenere in piedi l’amore che li unisce, ma anche il rispetto del percorso e dell’identità individuali, e man mano prendiamo coscienza insieme ai protagonisti dell’impossibilità di una conciliazione, dell’inevitabilità della scelta. Non c’è strada che non comporti una perdita, che si tratti della perdita di un legame importante che definisce queste due persone o la perdita della propria identità individuale.
Rispetto a Les amours imaginaires, Xavier Dolan – pur non rinunciando ad alcune delle invenzioni stilistiche che sono una delle cifre caratterizzanti del suo cinema (l’uso dei filtri colorati, della musica e del ralenti, spesso combinati; le sequenze oniriche e/o surreali che traducono in immagini gli stati d’animo; l’ossessione per la composizione visiva dell’inquadratura) – realizza un maggiore equilibrio tra la forma del suo cinema e la sostanza della narrazione, senza far quasi mai prevalere l’uno sull’altro.
Questa compattezza conferisce al film una grande potenza, che si sfilaccia solo nelle sequenze relative ad alcuni personaggi “secondari”, e che imprime nelle viscere dello spettatore il dissidio insanabile di queste due persone e trasmette – come in altri film di Dolan – la tragica ironia per cui la complessità e la consapevolezza dell’essere umano sono al contempo strumenti di una straordinaria possibilità espansiva ma anche precondizione di una felicità mai piena e completa.

 

Martina Melli

È SOLO LA FINE DEL MONDO

Una veranda luminosa nella provincia canadese dove si anima la sequenza di un pranzo di famiglia. È una delle scene più significative di Juste la fin du monde, quinta fatica del giovane, incredibilmente promettente e già decisamente “mantenente” Xavier Dolan.
Si è detto tanto sul melò famigliare dai prolungati primi piani e dalla fotografia estetizzante, da quando è uscito nel 2016 e si è aggiudicato il Gran Prix Speciale della Giuria a Cannes.
Quello che riecheggia di questo lungometraggio girato tutto in pellicola con una cura genitoriale verso il materiale di cui, dagli inizi del 900, sono fatti i sogni, è la totale impossibilità di comunicare e di essere ascoltati. Fino a qui niente di nuovo, diranno i più. Lo ha fatto Antonioni, lo ha fatto Bergman e in generale lo hanno scritto, dipinto ed espresso in varie misure la maggior parte delle voci di spicco del XX secolo.
Ciò che è davvero interessante in Dolan e in questo film in particolare è l’urgenza di raccontare il baratro di incompatibilità e incomprensione con la famiglia d’origine. Una incomunicabilità senza scampo, dovuta non solo alle personali predisposizioni e alla diversa sensibilità di ognuno, ma anche e soprattutto all’interferire di risentimenti, recriminazioni e frustrazioni dei singoli individui con se stessi, con la vita e con gli altri membri della famiglia.
È una relazione complicatissima per natura, a prescindere, che va oltre il chi è chi e che tipo di personalità si abbia; è una relazione sanguigna e sanguinosa che si schianta sull’unicità intrinseca degli individui e sull’andamento della vita di chiunque.
E Dolan ci mette il carico: i suoi protagonisti sono per lo più uomini (o ragazzi) omosessuali più o meno dichiarati, dotati di profondità emotiva, sensibilità artistica e un buon background culturale.
La madre di Louis gli dice “non ti capisco ma ti amo”; la sorella con amara ammirazione, riferendosi al suo mestiere di drammaturgo, non lo risparmia: “Hai un dono, non lo usi con noi… è per gli altri”.
Ma è il fratello maggiore Antoine che rende i contorni di questa problematica cristallini: in entrambe le sequenze del pranzo e del tragitto in auto, a ogni tentativo di Louis di raccontarsi, gli fa il verso, lo rimbrotta, lo mortifica.
Louis che esprime i motivi nostalgici e vagamente poetici dietro al proprio desiderio di rivedere la casa dell’infanzia, o quando rivela di essere partito prima per poter ammirare il tramonto dall’aeroporto. Antoine più feroce che mai: lo fa a pezzi, lo fa ammutolire.
Colpisce la sua anima di artista e scrittore, cioè l’essenza stessa del fratello.
“Le sfumature che dai alla vita a me non interessano, non hanno importanza, non hanno senso” sembra che dica Antoine; solo le cose vere, pratiche, hanno importanza. Però gli urta parlare anche di quelle (es. i suoi figli).
Gli dice siamo estranei, lo siamo sempre stati. Ossia siamo diversi.
Dopo che gli ha vomitato addosso tutta la rabbia accumulata in quei dodici anni di assenza, informa Louis che il suo amore di gioventù è morto di cancro una settimana prima. E lo fa così, velocemente, come se niente fosse. Comunica l’incomunicabile gettandolo con noncuranza per sminuire la profondità dell’esistenza.
Il nucleo familiare e la casa di mattoni stessa in Dolan sono spesso, cinematograficamente, un contesto limitato nello spazio, soffocato da interni kitsch o mortiferi e dalla poca luce. Un habitat dove nascere, crescere e sviluppare i primi decenni di vita fino a nutrire pulsioni intense: dolore, disperazione, a volte repulsione e puntualmente un forte desiderio di fuga, come pure si vede in J’ai tué ma mère.
Che poi il desiderio di fuga è naturale, sacrosanto. Non c’è sviluppo e non esiste possibilità di diventare se stessi se non si esce dalla casa natale, se non si fa esperienza del mondo in solitaria. Ed è questo lo scatto in avanti, elemento costante in quasi tutti i personaggi del regista quebecois, ma è un passaggio che in qualche modo va sempre scontato sulla propria pelle e sui propri sogni di libertà, perché l’evasione suscita atroci sensi di colpa e come un atto di tracotanza dell’eroe viene punita dal volere divino, spesso anche con la morte (Tom à la ferme).
In adolescenza l’impossibilità a essere capiti si manifesta sotto forma di fastidio e disperazione. In età adulta, dopo aver lasciato il nido per tornarci molti anni dopo, sulla scia del bisogno d’affetto e di essere accolti da chi ci ha messi al mondo, la rabbia adolescenziale si tramuta in una voce rassegnata e ritratta, di chi sta per morire e con dolore placido si rende conto che non è neppure possibile trovare un canale per condividere una notizia tanto grande.
Home is where it hurts, proprio come il titolo della canzone che apre il film.

 

Roberto Parrelli

LES AMOURS IMAGINAIRES – scena finale

In fin dei conti Francis e Marie erano sempre passati à côté della sua vita. Cosa avevano in realtà rappresentato per Nicolas?  Erano stati – è vero – abbagliati/baciati dalla sua divinità. Ma avevano commesso anche molti errori. Illudersi di poterlo acciuffare era stato uno di questi, e anche lottare tra loro. La campagna, le feste, i regali costosi, perfino dormire nello stesso letto… nulla aveva potuto.
Nella loro mente [troppo innamorata], infine, con la complicità paziente del tempo, l’idolo cade finalmente dal piedistallo costruito dai due innamorati (delusi, frustrati).
In un’altra/ultima festa, immersi nell’ennesima umiliazione (d’amore), i due compiono un salvifico spostamento del desiderio.  Le immagini ci spiazzano, certo più di loro che sono di nuovo rapiti da un nuovo oggetto di venerazione.
L’apparizione di Louis Garrel, giusta dose di ambiguità che non promette: lo vedono, forse lo mettono appena a fuoco. Lui strizza l’occhio (a loro? al nulla?): quasi a sottolineare il gioco, l’illusione, l’immaginazione di ruoli, di sentimenti. Un altro giro della farsa, proprio come nella vita.

 

 

MILANO

Margherita Gera

LAURENCE ANYWAYS – analisi della sequenza iniziale e della sequenza del viaggio sull’ Île au Noir

Laurence Anyways è il terzo film di Xavier Dolan, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard nel 2012. Il film racconta la storia di Laurence, un uomo che decide di diventare donna, e della sua tormentata relazione con la fidanzata Fred.
Il film inizia con la voce fuori campo di Laurence che sta facendo un’intervista e afferma “sto cercando qualcuno che capisca la mia lingua e che la parli. Qualcuno che, senza essere un reietto, si ponga delle domande non solo sui diritti e i valori degli emarginati, ma anche sui diritti e valori delle persone che si definiscono normali”. Questa frase è emblematica del significato del film, che raccontando le vicende di un uomo che vuole essere una donna, parla anche dell’impossibilità di chi esce dagli schemi imposti dalla nostra società di essere liberamente ciò che è, ciò che si sente di essere, e quindi di condurre una vita “normale”. Il formato cinematografico utilizzato dal regista, più stretto rispetto a quello standard, è una metafora della sensazione di oppressione che prova il protagonista. Nella prima sequenza del film ci vengono mostrate delle stanze di una casa spoglia, poi una porta che si chiude e una donna di spalle che esce di casa: non vediamo il suo volto, ma possiamo intuire che si tratta di Laurence Alia. La musica che accompagna le immagini (in questo caso “If I Had a Heart” di Fever Ray) è un elemento fondamentale del cinema di Xavier Dolan, che la utilizza come un vero e proprio mezzo per comunicare le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi. Seguono dei primi piani dei volti di persone che ci guardano: in realtà quegli sguardi sono rivolti all’uomo in abiti da donna che cammina, ma grazie a queste inquadrature il regista ci fa provare la stessa sensazione che prova Laurence, quella di essere osservato e giudicato. Allo stesso tempo è proprio il viso del protagonista che ci viene negato, che siamo curiosi di vedere come fanno tutti gli altri, ma che non si volta mai del tutto e alla fine della sequenza scompare nella nebbia. Già da queste prime scene riconosciamo lo stile registico di Dolan, la grande importanza che viene data agli sguardi nel suo cinema, che spesso trae ispirazione dai registi della Nouvelle Vague. Si possono notare infatti delle analogie con la sequenza del film “Cléo de 5 à 7” di Agnès Varda, in cui la donna cammina per le strade di Parigi e i primi piani dei passanti che la scrutano, che ci scrutano, si mescolano con quelli delle persone della sua vita.
Dopo la sequenza iniziale il film è un lungo flashback che racconta la storia di Laurence dal momento in cui decide di confessare a Fred di non poter più vivere come ciò che non sente di essere. Lei, dopo un primo momento di titubanza, decide di sostenerlo nella sua decisione e i due continuano la loro relazione. Laurence inizia così a indossare vestiti da donna: all’inizio tutto sembra procedere per il meglio, ma quando Fred ha un esaurimento nervoso e Laurence viene licenziato dalla scuola in cui lavora la situazione precipita e i due si separano. Anche la fotografia del film rispecchia questi due momenti: all’inizio le luci e i colori sono più vivi, mentre nella seconda parte tendono a toni più scuri e cupi.
Cinque anni dopo però si rincontrano e capiscono che ciò che c’è stato tra loro non è mai del tutto finito e forse non finirà mai: perciò decidono di fuggire insieme sull’ Île au Noir. Basta uno scambio di occhiate di intesa tra i due per far capire a Laurence che Fred è intenzionata a seguirlo: ancora una volta gli sguardi svolgono un ruolo fondamentale ed esprimono molto di più di quello che potrebbe essere detto a parole. Nella sequenza del loro viaggio la scritta nera “ÎLE AU NOIR 1996” compare sopra ad una carrellata dall’alto di ghiacciai e siamo subito trasportati sull’isola dove Laurence e Fred camminano in un paesaggio innevato. A cadere dal cielo limpido però non sono dei gelidi fiocchi di neve, ma una moltitudine di vestiti colorati. L’immagine ricorda l’ultima sequenza di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, in cui delle esplosioni in slow-motion riempiono il cielo di oggetti fluttuanti. Nei film di Xavier Dolan infatti troviamo spesso delle citazioni dei registi che lo hanno ispirato e delle scene surreali che raffigurano le emozioni dei personaggi. In questo caso gli abiti che cadono rappresentano il senso di libertà che provano i due protagonisti in quel momento, come se si spogliassero di tutto ciò che gli impediva di essere sé stessi. Inoltre possono simboleggiare un momento di complicità ritrovato: all’inizio del film infatti Laurence, per gioco, saliva sul letto e rovesciava sopra a Fred il cesto con i vestiti appena lavati. La felicità di quell’attimo però non è destinata a durare e questa fuga insieme, come dice il titolo della canzone che accompagna la sequenza (“A New Error” dei Moderat), si rivelerà essere stata un errore.

 

Samantha Ruboni

Il rapporto madre-figlio nel cinema di Xavier Dolan: la sequenza onirica nel bosco di J’ai tuè ma mère

Fin dal principio della sua carriera cinematografica, Xavier Dolan ha sempre concretizzato pensieri e sogni che i protagonisti compiono nei suoi film. Già nella sua primissima pellicola, J’ai tuè ma mère (2009), Dolan inserisce in molte sequenze, dopo che il protagonista chiude o abbassa gli occhi, parti oniriche sottolineate da colori sgargianti e un cambio repentino della musica, che dà lo stacco necessario dal resto del film.
Sicuramente una di queste sequenze iconiche che sono risultate di più difficile lettura e che ancora dividono la critica, è la sequenza onirica nel bosco di J’ai tuè ma mère.
In questa sequenza troviamo il protagonista, Hubert, vestito con jeans e giacca scura. In piedi immobile, si staglia di fronte alla madre, anche lei in piedi e immobile, vestita di un bianco vestito da sposa. I due sono inoltre circondati da un prato che s’interseca in un bosco con un foliage marcato sui toni del rosso e dell’arancione. Appena il protagonista accenna a muoversi verso la madre, questa scappa dentro al bosco, con un bellissimo contrasto cromatico tra i forti colori delle foglie e il bianco dell’abito. Hubert la insegue e cerca di afferrarla, senza riuscirci. Anzi più il figlio si avvicina a lei e più lei aumenta il passo terrorizzata, contrastando in ogni modo il contatto fisico con Hubert.
Questo tipo di sequenza a prima visione sembrerebbe campata in aria, e buttata così, senza motivo, in mezzo al film. Ma non è così. La sequenza viene inserita in un momento molto particolare della storia del protagonista ed è inserita in un momento perfetto all’interno della visione.
Se stiamo attenti ai dialoghi, e, visivamente, andiamo avanti veloce nella pellicola al filmino del finale, vediamo come la natura e la campagna sono da sempre la cornice bucolica dell’infanzia idealizzata di Hubert. Infatti se prestiamo attenzione, i filmini finali sono ambientati nello stesso bosco a foliage aranciato della sequenza che stiamo analizzando. Anche lo sbocco su quello che sembra un lago, viene preso in considerazione nella sequenza onirica e viene ripreso nel filmino.
Così procedendo abbiamo quindi il luogo in cui la sequenza onirica viene ambientata, che ci dà adito a procedere con l’analisi. Abbiamo quindi l’infanzia di Hubert, che durante il film viene descritta come unico periodo felice passato con la madre. Nella pellicola vediamo come Hubert abbia questo rapporto difficile e un amore e odio nei confronti della madre. Nonostante i suoi sforzi per la conciliazione (la spesa, la cena, l’aiuto in casa), la madre lo vuole comunque mandare in un istituto. Quindi questa corsa disperata all’interno del bosco sta a significare lo sforzo continuo di raggiungere e capire la madre, che però è inafferrabile e anzi non aperta al dialogo e al farsi capire dal figlio. Hubert cerca quindi di prendere la madre, di tornare al rapporto che avevano durante l’infanzia, ma gli scontri e la chiusura della madre nei suoi confronti non glielo permettono. Allo stesso modo il vestito da sposa può rimandare all’individuo donna, prima che fosse madre, quella persona che vorrebbe conoscere, ma che gli sfugge via e non riuscirà mai conoscere appieno, dal momento che viene continuamente respinto da lei, che corre a perdifiato all’interno del bosco. È quindi, una ricerca disperata di capire la madre da parte del protagonista e, anche, un occhio molto particolare di Dolan per vedere la situazione dal punto di vista di lei, sia come madre che come persona.

 

Malaika Sanguanini

J’AI TUÈ MA MÈRE – Anime di un’altra epoca

Il primo film di Xavier Dolan è incentrato principalmente sul rapporto di amore-odio tra il protagonista sedicenne Hubert e la madre. Hubert sembra essere un adolescente arrabbiato con il mondo intero ma con un’immensa sensibilità e profondità che la maggior parte delle persone che lo circondano, madre compresa, sembrano non cogliere.  L’estrema superficialità che scorge intorno a sé, il non essere mai compreso, il vedere che le persone che lo circondano sono interessate solo a cose futili o come dice il protagonista nel film “persone che non sanno nemmeno coniugare il verbo essere” sembra essere ciò che lo fa soffrire di più, il non riuscire a trovare nessuno che “parli la sua stessa lingua” lo fa sentire estremamente solo.
L’unico adulto, presente nel film, che sembra capire la sua anima poetica e romantica è la sua professoressa, con la quale si crea un rapporto di fiducia; i due scoprono di avere molto in comune: entrambi hanno un brutto rapporto con un genitore, la professoressa si confida con il ragazzo raccontandogli di aver troncato i rapporti con il padre da oltre dieci anni e l’amore per la letteratura e la poesia li avvicina ancora di più.
C’è una meravigliosa scena in questo film che fa ben comprendere quanto la professoressa abbia colto a pieno l’animo del ragazzo, lei è forse l’unica che riesce ad andare oltre l’apparenza, oltre a questo atteggiamento, che a primo impatto può semplicemente far pensare ad un ragazzino inutilmente arrabbiato e viziato.
Hubert, mentre è sul pullman che lo sta conducendo in collegio, dove lo hanno appena iscritto di comune accordo i genitori, legge una lettera che la professoressa gli ha fatto recapitare a casa, la quale dopo la partenza del ragazzo, decide anch’essa di andarsene.
«Caro Hubert, sei un pesce dai fondali oceanici: cieco e luminoso. Nuoti in acque agitate con la rabbia dei tempi moderni, ma con la poesia fragile d’un tempo. Dopo la tua partenza, mi ha telefonato mio padre e mi ha detto: “Si sono io, volevo avere tue notizie”.
Dieci anni di silenzio, dieci secondi di frastuono. Riconosco l’assurdità della vita.
Ho deciso di andare da un’amica d’infanzia a Prince-Georges, nella Columbia Brittanica.
Non so quando ritornerò, o se tornerò.
Non ti dimenticherò.
Julie Cloutier»
“Con la rabbia dei tempi moderni ma con la poesia fragile d’un tempo”, queste parole descrivono perfettamente l’anima del protagonista, certo, un ragazzo arrabbiato a causa forse della frenesia e del vivere moderno, con il quale sembra non riuscire a convivere a “causa” della sua anima fragile, troppo profonda per questo mondo.
La professoressa anch’essa, forse, troppo romantica e con visioni del mondo non conciliabili con il vivere moderno, trova in questo ragazzo forse se stessa o comunque una persona con cui si rispecchia molto.
Questo rapporto, il fatto di essere riusciti a trovare una persona che capisca esattamente ciò che stai dicendo in mezzo “all’assurdità della vita” può dare un minimo di sollievo alle esistenze dei due personaggi.
Due anime così distanti dalle comuni persone li circondano, due anime, azzardo, di un’altra epoca sono difficili da trovare, ma quando le due si incontrano è pura magia.

 

Paola Sangiovanni

J’AI TUÈ MA MÈRE – Io odio l’adolescenza

Diciamoci la verità: l’adolescenza è un incubo, per la maggior parte di noi. È un periodo in cui passiamo la maggior parte del tempo a odiare: odiare noi stessi, perché non siamo nati con lo charme seduttivo di una reginetta di bellezza, odiare i politici perché non sanno offrirci un ideale, odiare il ragazzo silenzioso con gli occhiali del primo banco perché abbiamo paura di essere considerati come lui. Infine, l’odio degli odi: quello verso i nostri genitori perché non sono mai come li vorremmo. Genitori costretti a sopportare le nostre turbe, i nostri lamenti, i nostri strilli, le nostre delusioni: quante volte questo odio sarà stato ricambiato?
Quante volte devono aver pensato: maledetto il giorno in cui ho fatto un figlio? Di questo parliamo raramente perché viviamo in una società troppo ipocrita per ammetterlo e spesso, troppo spesso, offriamo dell’adolescenza e della maternità/paternità una visione edulcorata, quasi epica.
Xavier Dolan, questo prodigioso regista canadese, non solo deve aver odiato anche lui a 16 anni – l’età in cui ha scritto J’ai tué ma mère – ma ha talmente tanto sviscerato e analizzato l’odio da essere in grado di attraversare gli anni e guardare il mondo e la sua stessa adolescenza anche dal punto di vista della madre, una madre che odia e ama quel figlio così fuori dai canoni. Da questa crudele analisi nasce il suo primo film, girato a soli 19 anni.
Un odio amore per i genitori, dicevamo, per una madre sgradita e per un padre a cui è riservata, in tutta la sua filmografia, una damnatio memoriae, la punizione che il Senato romano riservava ai traditori attraverso la simbolica cancellazione dei loro volti e nomi persino dalle statue a loro dedicate.

LA CENA:

In J’ai tué ma mère l’estrema mancanza di sintonia è rappresentata splendidamente non solo dai dialoghi – che hanno il sapiente sapore del teatro – ma anche attraverso un gioco di posizioni e inquadrature spinte all’estremo che impediscono allo spettatore di godere di un punto di vista privilegiato e seguire nel suo insieme la scena. Questa scelta stilistica si ripete spesso nel film, ad esempio nella scena della cena in cui madre e figlio discutono animatamente per un motivo apparentemente futile: nessuno dei due si vuole piegare, nessuno dei due prova ad essere indulgente. Il senso di oppressione dei personaggi aumenta e l’incapacità di farsi capire – e di ascoltare – è rappresentata dal progressivo isolamento del loro volto in un angolo dell’inquadratura.

IL PRANZO:

Questa soluzione visiva torna anche quando il protagonista, Hubert – interpretato dallo stesso Dolan – si confronta con la sua giovane professoressa – Julie Cloutier interpretata da Suzanne Clément – che, attratta dalla sua sensibilità, lo porta a pranzo per risollevarlo dopo una terribile sfuriata della madre a scuola. Anche qui, sebbene la professoressa riesca a sbirciare con grazia nei problemi del ragazzo come solo un estraneo sa fare, i due – ancora una volta isolati nell’angolo – sembrano recitare due monologhi incrociati destinati a non incontrarsi mai.
E sebbene in chiusura della scena il regista ce li faccia nuovamente scoprire insieme, entrambi protagonisti che chiacchierano in quel ristorantino a cui lei è tanto affezionata, seduti l’uno accanto all’altro, come fossero in una metropolitana vuota, sono destinati a lasciarsi dopo pochi minuti.
Una delle cose più belle del cinema è forse proprio la capacità di creare dei nessi nello spettatore, dei salti che ti aiutano a leggere e rileggere a modo tuo le opere e la tua vita. Ecco, questo salto mi ha portato ad atterrare su una delle ultime scene di un film – Little Miss Sunshine – molto meno aulico, ma di dolcezza infinita, che con J’ai tué ma mère ha qualcosa in comune: la narrazione delle difficoltà che in tutte le età presenta il confronto con l’altro.

 

 

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