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Alejandro González Iñárritu, un bis da record

L'88ª edizione della cerimonia degli Oscar ha laureato il cineasta messicano Alejandro González Iñárritu miglior regista per il secondo anno di fila, dopo l'affermazione del 2015 con BirdmanSi tratta di una doppietta storica, accaduta in altre due sole occasioni nella storia degli Academy Awards: il primo a riuscire nell'impresa fu il leggendario John Ford, che vinse nel 1941 e nel 1942 rispettivamente per Furore Com'era verde la mia vallema anche il regista americano di origini polacche Joseph L. Mankiewicz concesse il bis, trionfando nella categoria di best director sia nel 1950 per Lettera a tre mogli sia l'anno successivo con Eva contro Eva.

Come si spiega un plebiscito così unanime e un consenso di tali proporzioni? Iñárritu, che continua a dividere i cinefili più radicali e spesso buona parte della critica internazionale (The Revenant in tal senso non ha fatto eccezione, racimolando entusiasmi ma anche sonore stroncature), è al giorno d'oggi il regista più stimato dai suoi colleghi e dai componenti dell'establishment hollywoodiano. Un successo di sicuro spropositato e che qualcuno può legittimamente bollare come esagerato o fuori luogo, ma che ha al contempo radici innegabilmente profonde, dal punto di vista sia culturale che industriale.

Per capire il fenomeno rappresentato a Hollywood da Alejandro González Iñárritu, o perlomeno per inquadrarlo un po' meglio, ci viene in soccorso la riflessione del compianto critico cinematografico Vincenzo Buccheri, che nel suo volume La scienza del sogno. Scritti critici 1992 - 2009 tracciava una precisa e approfondita disamina a largo raggio sul concetto di midcult applicato al prodotto medio d'autore del cinema contemporaneo. Una categoria ben precisa che si rivolge per definizione a un pubblico il più vasto possibile, spesso medio-borghese, prendendo in prestito modelli alti ma adattandoli a una sensibilità più pratica, semplificandoli considerevolmente ma senza annullarne del tutto la complessità, anche nella volgarizzazione.

E' proprio quello che fa Iñárritu col suo cinema cosmopolita (Babel, 21 Grammi) ma al contempo fortemente radicato nelle origini nazionali del regista messicano (Amores Perros, Biutiful), lavorando su corde drammatiche altissime e su una componente autoriale che non rinuncia tuttavia a una sapiente dose di spettacolarizzazione. Aspetti che fanno presa già sul grande pubblico, figuriamoci sulla medietà generalizzata che per forza di cosa caratterizza i molti votanti dell'Academy. Scrive Buccheri:«Per Adorno o MacDonald, volgare era il midcult, cioé la marmellata dell'industria culturale. Ma midcult oggi non significa soltanto Hollywood, le soap e i paperback: è l'ecumenismo dell'intellettuale sospeso tra l'India e la Mitteleuropa. (...) Volgare, in genere, è il cinismo dell'intellettuale che si è arreso, o che pretende di scardinare il sistema "dall'interno"».

Se sostituiamo l'accezione negativa del termine "volgare" intendendolo in maniera più neutra come "enormemente popolare", a seconda di ciò che si pensa di Iñárritu, il gioco è presto fatto e i punti di riferimento validi come chiavi di lettura restano immutati: la centralità di Hollywood, la capacità di giocare con culture diverse, la ricerca di un consenso generalizzato e, ultima ma non in ordine d'importanza, proprio la voglia di scardinare un sistema dall'interno. Se in passato Iñárritu ha forzato i confini del cinema hollywoodiano esaltando nei suoi film un modello narrativo esotico e peculiare, vale a dire quello delle storie a incastro e delle vite che s'intrecciano casualmente, con Birdman ha compiuto uno scarto decisivo: il film trionfatore degli scorsi Oscar è a conti fatti un'auto-rappresentazione di Hollywood narcisa e nevrotica, che consente all'industria di guardarsi allo specchio tra pochi virtù, molti vizi e psicosi da successo all'epoca dell'iperrealismo del web e del compiacimento da social. Una sfrontatezza mica da poco che non a caso ha fatto il gioco di Iñárritu, capace di colpire nel segno mettendo il dito nella piaga: chi d'altronde potrebbe essere più sensibile dei votanti dell'Academy, su certi argomenti?

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Una sfida a Hollywood che si rinnova anche nell'ultimo The Revenant, sul piano industriale e produttivo e in forme il più possibile concrete e tangibili. Il film è infatti un'opera-limite sul versante del budget, passato da $60 milioni a $135 milioni in virtù del gigantismo e del perfezionismo del regista, alla ricerca di un'accuratezza estetica magistrale e di una spietata, crudissima verosimiglianza, che anche in questo caso non rinuncia alla componente viscerale della spettacolarizzazione (si veda l'elaborato e sinceramente magistrale piano sequenza d'apertura).  Un oltranzismo e un'ostinazione che, al di là degli esiti artistici del film, a Hollywood non si fa vede certo tutti i giorni, specie di questi tempi, e che non può non riscuotere grandi consensi presso chi il cinema lo fa e lo vive sulla propria pelle, rischiandola però quasi mai. L'Oscar come miglior film alla fine non è arrivato, ma la formula Iñárritu non ne esce affatto scalfita.

Il regista messicano, in definitiva, nel giro di due film ha rappresentato limiti e idiosincrasie di Hollywood in Birdman e ha superato con un colpo di spugna le limitazioni preconfezionate della medesima industria nel film successivo. Il che, forse, può spiegare gli Oscar vinti, per ragioni opposte ma speculari: a Hollywood piace più di ogni altra cosa vedersi rappresentata ed essere eletta come somma pietra di paragone, nel bene come nel male.

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