News
George A. Romero al Lucca Film Festival: «i cinecomics di oggi non sono arte»

Un altro regista di peso ha avuto modo di impreziosire il cartellone del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016: il maestro americano George A. Romero, ospite d’onore della rassegna, ha incontrato un folto pubblico di appassionati e fan adoranti nel corso di una masterclass da lui presieduta presso il Cinema Moderno. Il cineasta newyorkese ha avuto modo di discutere dei suoi esordi, della sua carriera, della portata rivoluzionaria e innovativa del suo cinema ma anche di tanto altro, in una generosissima conversazione a ruota libera che ha entusiasmato il pubblico presente.




Cosa deve fare oggi un regista che vuole iniziare a fare questo mestiere?


Il primo consiglio che vi posso dare è quello di filmare qualcosa, prendete in prestito una macchina da presa e filmate. Non basta scendere in strada e dire di saper fare quello che si sta facendo, bisogna dimostrarlo. In molti corti ho visto quella scintilla iniziale che sta dietro al talento e credo che iniziare a girare sia molto più importante di andare all’università o di frequentare una scuola. Imparate a vedere la realtà attraverso l’obiettivo.


Una domanda da rivolgere al giovane George Romero, quello prima de La notte dei morti viventi: com’era trovarsi a Pittsburgh, da sconosciuto, con la propria crew al seguito, e che idea aveva di come sarebbe stato distribuito il suo lavoro una volta finite le riprese?


A dire la verità non ne ho idea e non ce l’avevo a quei tempi. Eravamo spinti da un ottimismo irrefrenabile e la situazione era diversa da ora, vi erano molti piccoli distributori. Oggi è più difficile distribuire un film che realizzarlo, all’epoca era esattamente il contrario. Andavamo in giro in macchina con la pellicola nel bagagliaio per farla vedere ai distributori. Anche la Columbia voleva distribuirlo ma desideravano cambiare il finale e noi con molto coraggio abbiamo detto di no. Siamo stati fortunati perché ciò che conta, alla fine, è su quanti schermi verrà proiettato il tuo film.


A proposito di fruizione: cosa pensava, all’epoca, dell’idea che il suo film sarebbe stato proiettato nei drive-in?


Una delle prime proiezioni de La notte dei morti viventi fu proprio in un drive-In. La sera prima fu proiettato in un’anteprima a Pittsburgh in un sala normale, ma il giorno dopo andammo a vederlo in un drive-in e solo lì ci siamo resi conto che avevamo fatto davvero il film.


Quanto c’era di commerciale nell’idea di fare un horror come La notte dei morti viventi in quel preciso momento storico, con la Summer of Love che era fallita e tutti gli amici hippie che ormai avevano già preso la via di Wall Street?


Ci siamo resi conto fin da subito della necessità di fare qualcosa che fosse anche commerciale, volevamo un prodotto che comunicasse il nostro pensiero in modo anche scioccante. Oggi La notte dei morti viventi può non impressionare e sembrare innocuo, ma all’epoca fece molto rumore e io penso che il sangue faccia sempre più effetto quando è mostrato in bianco e nero. Non volevamo fare un film sulla razza, ma un film su un gruppo di individui che non riescono ad affrontare una minaccia che sta all’esterno e rimangono intrappolati nelle loro piccole meschinità. Non è tanto un film sugli zombi, potrebbe esserci al loro posto anche un uragano e il messaggio sarebbe esattamente lo stesso. In ogni caso volevamo rendere l’azione e lo shock commerciali, tant’è che tornammo a girare dei fotogrammi in più per renderli ancora più scioccanti.


Può dirci qualcosa riguardo Knightriders, un film per lei molto personale, spesso offuscato dagli altri suoi film sugli zombi.


Knightriders è il mio film più personale, un film su di me, un film che parla di me. Parla di una persona che rimane fedele ai suoi valori anche se non è la soluzione migliore per lui. Io in quel periodo non avevo ancora lavorato a Hollywood ed ero ancora a Pittsburgh, non ottenevo chissà quale riscontro commerciale ma ero contento di rimanere lì e di continuare a girare nella mia città. Volevo fare quel film coi cavalli, ma alla fine seguendo il consiglio di un produttore lo feci con le motociclette. Per cui questa scelta la dobbiamo ad Hollywood.


Quale sono state le sfide e le difficoltà più grandi da affrontare nella sua carriera?


Io ero come un cane che non molla l’osso, non mi tiravo mai indietro. Forse la cosa più difficile è capire come utilizzare il mezzo, come utilizzare la pellicola. All’epoca anche le notizie dei telegiornali erano filmate sempre su pellicola, in 8mm o 16 mm. A Pittsburgh c’erano tre aziende che montavano le notizie e sono stati loro ad insegnarmi i primi rudimenti e l’Abc sul montaggio e dell’uso della pellicola. Da lì mi sono sempre buttato, una volta imparato. La determinazione era massima. Non mollavo l’osso.


Nei suoi film gli zombi sono sempre andati piano, senza accelerare i movimenti del corpo. Per lei gli zombi possono correre?


No, non possono. E per citare lo sceriffo: questi sono morti, non ce la faranno mai. Forse in 28 giorni dopo potevano farlo, per via del virus. Ma in generale no, se sono morti è ovvio che non possono correre…


Hanno fatto moltissimi remake dei suoi film e le sue creature sono state copiate ovunque, al cinema, nelle serie tv, nei videogiochi. Qual è secondo lei il rifacimento migliore del suo lavoro?


Sono proprio i videogame a spingere e incentivare la crescita e lo sviluppo del mondo degli zombi, dopo un po’ Hollywood si accorse di questo fenomeno e ci investì. Oggi purtroppo è impossibile proporre di fare un film sugli zombi, i miei ultimi due film sono costati due milioni ciascuno, al massimo due milioni e mezzo, che sono noccioline rispetto ai budget hollywoodiani che circolano adesso. Oggigiorno ci sono le zombie walks, le “camminate zombi”, in moltissime città del mondo, ma credo sia un interesse che scemerà in fretta e in tutta questa confusione è difficile trovare la psicologia sottesa al fenomeno, considerando anche per Hollywood è solo una questione di quattrini. Anch’io sono finito in un videogame una volta, comunque, ero un personaggio che doveva essere ucciso dagli zombi…


Edgar Wright e Zack Snyder, nello specifico, hanno fatto delle rielaborazioni dei suoi film, rispettivamente L’alba dei morti dementi e L’alba dei morti viventi, remake del suo Zombi. Ha avuto dei rapporti con loro? Cosa ne pensa del loro lavoro?


Con Edgar ho un ottimo rapporto, mi mandarono anche una copia personale del film dalla Universal sperando che mi piacesse e in effetti il film mi è piaciuto molto. Io vivo a Toronto con mia moglie, e quando Edgar è venuto in Canada a girare il suo Scott Pilgrim vs. The World abbiamo avuto modo di frequentarci e moltissime occasioni di vederci. Zack non lo conosco e non l’ho mai incontrato: tolti i primi quindici minuti, non ho mai capito la necessità di fare quel film. La verità è che tutti i miei film hanno sempre avuto un messaggio sottostante, un messaggio politico, sociale, una critica tagliente o ironica. E’ una cosa che non riesco a trovare nei film che hanno fatto altri. Una volta dissi a Stephen King: ma cosa provi ora che molti dei tuoi libri sono stati rovinati dal cinema? E lui rispose che i suoi film erano nello scaffale alle sue spalle, e stavano benissimo.


Lei ha interpretato il centro commerciale in maniera profetica, come simbolo del nuovo mondo malato che stava venendo fuori. 


Assistetti alla creazione del primo centro commerciale a Pittsburgh, ma penso di aver intuito qualcosa che fosse sotto gli occhi di tutti. Anche voi, se foste stati in quel posto in quel momento, avreste percepito le stesse sensazioni riguardo la messa in piedi di questo spaventoso monumento al consumismo. Per quanto mi riguarda era automatico prefigurare ciò che sarebbe venuto dopo, non ci vedo nulla di speciale.


Che ne pensa dei cinecomics contemporanei?


Moltissimi di quei film sono enormi, estremi, devono avere un grandissimo budget e un notevole riscontro e sono impossibili da fare senza effetti speciali, per cui mi interessano poco. Mi è piaciuto immaginare nel fumetto Empire of the Dead, che inizialmente doveva intitolarsi Marvel of the Dead, che i vampiri fossero gli unici a sopravvivere all’apocalisse, mi è venuta quell’idea lì nel momento in cui mi è capitato di lavorare a un fumetto (mi era già successo in un’altra occasione, in precedenza, con la DC Comics). Per quanto mi riguarda è difficile però immaginare una connessione emotiva con un film tratto da un fumetto, si può rimanere sorpresi, di sicuro, ma non c’è immedesimazione in quel tipo di film. Trovo che nei film tratti dai fumetti, semplicemente, non c’è arte. Un’arte che molto spesso è presente nelle tavole da cui sono tratto, ma che appena viene trasportata al cinema si smarrisce clamorosamente.


Come ha vissuto il suo rapporto con la saga degli zombi attraverso gli anni e attraverso i film?


Inizialmente avevo l’idea di fare un film sugli zombi ogni dieci anni. Ma penso seriamente che bisogna fare qualcosa e mettersi a scrivere solo quando si ha davvero qualcosa da dire di profondo, altrimenti è meglio evitare. Stavo scrivendo anche durante l’11 Settembre, quando poi sono state attaccate le Twin Towers. Alla fine sono tornato ai nuclei fondamentali: Diary of the Dead, incentrato sui social media, e Survival of the Dead, ancora sull’incomunicabilità.


Leggendo il volume di Claudio Bartolini George A. Romero – Appunti sull’autore, scopriamo che la critica italiana ha avuto un rapporto controverso col suo cinema, stroncandolo quasi sempre salvo poi cominciare a rivalutarlo in blocco a un certo punto, da La terra dei morti viventi in poi, scomodando la componete teorica dell’horror e i meriti di un regista fino a quel momento da loro ritenuto puro underground, ma in senso dispregiativo. Ha fatto eccezione Tullio Kezich, che ha scritto anche recensioni entusiastiche dei suoi lavori.


Non è una domanda molto semplice cui rispondere. Io ho un’idea dell’Italia che mi sono fatto attraverso gli occhi di Dario Argento e mi sono reso conto che gli italiani davano grande attenzione al messaggio sottostante ai miei film, cosa che in America non succedeva, perché lì si tende a guardare solo il livello superficiale. Lo stesso Roger Ebert, che era il più grande critico americano su piazza, mi stroncò La notte dei morti viventi in maniera memorabile. Io credo che ci sia un pregiudizio generale nei confronti del genere, non certo contro la mia persona. La notte dei morti viventi in tal senso ha aperto una porta e inaugurato un’epoca nuova.


Maximal Interjector
Browser non supportato.