Uscendo dalla metropolitana di Porta Venezia, l’unica sensazione che si prova è quella di essere catapultati nel cuore della caotica e rumorosa vita milanese. Incastrato tra i giardini Indro Montanelli e la trafficata Corso Buenos Aires, sorge una piccola oasi: un rassicurante rifugio per tutti i cinefili di Milano. Lo spazio Oberdan è la cineteca per eccellenza: un luogo dedicato e pensato appositamente per tutti gli amanti della settima arte, e il Milano Film Festival ha deciso di adottarlo per tutta la durata del suo evento. Ieri pomeriggio la sala colma di spettatori ha dato il benvenuto a Diamond Island, ultima pellicola del franco-cambogiano Davy Chou. Noi di Long Take siamo andati a vedere il film, inserito nella categoria dei lungometraggi in concorso.
Dopo aver esordito nel 2008 con il cortometraggio Expired, Chou – insieme a Claire Maugendre – scrive a quattro mani il suo primo lungometraggio: un’opera tecnicamente semplice ma moralmente complessa. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes 2016, il film racconta la storia del giovane Bora, un adolescente che, dopo aver lasciato il suo paese natale, decide di andare a lavorare nella moderna isola delle megacostruzioni, Diamond Island. Il vero motivo del suo trasferimento è la ricerca del fratello maggiore, che non vede e non sente da più di tre anni. Una volta scovato, scoprirà che un velo di mistero e carisma avvolgono la sua figura.
Chou, tramite gli occhi del giovane Bora, vuole raccontare la trasformazione socio-economica della Cambogia, evidenziando il contrasto tra le classi e la voglia sfrenata dei protagonisti di vivere nel lusso. L’isola di Diamond viene vista, tanto dai personaggi quanto dagli spettatori, come il luogo perfetto dove i sogni possono diventare realtà. Tuttavia, una volta riuscito a entrare nell’alta società dell’isola, una serie di eventi porteranno Bora a valutare con occhio più critico quel mondo che aveva sempre desiderato.