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Nicolas Winding Refn: incontro e intervista con il regista di The Neon Demon

L’università IULM di Milano ha ospitato nella giornata di martedì 7 giugno un masterclass con il regista danese Nicolas Winding Refn che ha presentato al pubblico il suo ultimo film The Neon Demon, già in concorso al Festival di Cannes e in uscita nelle sale italiane a partire da mercoledì 8 giugno.

Nella gremita Aula Magna dell’università IULM si è svolto l’incontro moderato dal critico cinematografico Gianni Canova e che ha visto, nella seconda parte, protagonista anche Dario Argento: il regista italiano è uno dei modelli di riferimento per Refn e nel corso della conversazione pubblica sono emersi diversi punti in comune tra i due cineasti.

Dopo una clip introduttiva che omaggia il cinema di Nicolas Winding Refn, mostrando le immagini di tutte le pellicole precedenti firmate dall’autore danese, Gianni Canova incalza il regista di The Neon Demon, iniziando la conversazione affrontando il tema della forza delle immagini nel suo cinema.

Tu puoi essere considerato uno dei pochi autori del panorama contemporaneo capaci di parlare per immagini e scuotere gli animi degli spettatori, anche con conseguenze respingenti. Il tuo ultimo film ha destato un certo scandalo a Cannes. Che tipo di autore pensi di essere?

Non so che autore sono, so solo che quando faccio film ci metto molto di me stesso. Cerco di vivere la mia creatività nella maniera più fertile possibile. Amo molto i classici e il cinema di genere, prendo spunto parecchio da questi film, ma cerco sempre di rielaborare qualcosa di personale e nuovo.

Per te il cinema è sempre stata una grande passione, ma anche un’ancora di salvezza.

In un certo qual modo posso dire di essere stato fortunato. Fin da bambino sono stato dislessico: non riuscivo a leggere, faticavo a parlare e a studiare, non sono mai stato bravo negli sport o nelle arti manuali. Sono sempre stato forte nel guardare film. Ho visto tantissimi film fin da bambino e la mia formazione è stata prevalentemente visiva: per lungo tempo ho vissuto attraverso ciò che guardavo. Il cinema mi ha attirato e mi ha portato a scoprire molto del mondo e, soprattutto, di me stesso, a immergermi nella mia fantasia e nella mia creatività. Il cinema è la tela bianca che ho deciso di riempire.

Tu sei una persona molto tranquilla, per certi versi anche abbastanza timida, ma nei tuoi film i protagonisti sono quasi sempre personaggi taciturni, degli outsider, che sembrano nascondere una ferocia lungamente sopita. Anche tu sei così? Sei una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde?

C’è un sadomasochista in me, probabilmente. Quando ho iniziato a fare cinema ho voluto cercare sempre di cogliere la verità, il reale, e per farlo ho deciso di mettermi in gioco in prima persona. I miei film parlano di me, sono, potremmo dire, un’estensione di quello che sono e del modo che ho di esprimere il mio punto di vista sul mondo. Evidentemente il sadismo è dentro di me, ma in maniera del tutto naturale, anche se il mio carattere all’apparenza è completamente diverso. Ed è proprio questo che mi affascina quando racconto una storia: la complessità della natura umana e il contrasto tra ciò che è e ciò che appare.

In due diversi periodi storici hai avuto esperienze a Hollywood, un’esperienza che al momento continua. Che cosa rappresenta la Mecca del cinema per un cinefago come te?

Hollywood è il cuore dell’entertainment e io con i miei film cerco di intrattenere il pubblico. Però un film come Drive, Hollywood non lo voleva e ho dovuto cercare capitali all’estero, in Europa, per finanziarlo. Ma è stato girato a Los Angeles ed è la dimostrazione che si può agire all’interno di un sistema, pur essendone ai margini, senza seguirne le mode per forza. Ad ogni modo amo Hollywood e tutta la sua mitologia che è stata decisamente formativa per il tipo di cinema che ho deciso di fare.

La tua carriera è stata costellata da successi, ma anche da fallimenti. Che rapporto hai con il fallimento?

Fallire è fantastico, perchè ti rende più forte e ti aiuta a studiare i tuoi limiti e a migliorati. Penso che la creatività sia come il sesso: si migliora strada facendo, bisogna capire ciò che funziona e ciò che non funziona in te e nelle persone con cui ti rapporti. Bisogna fare i conti con le proprie frustrazioni e le proprie debolezze e cercare di trasformarle in punti di forza. Se si fa questo, io credo che il fallimento non esista: almeno artisticamente parlando. In questo modo puoi fare ciò che vuoi, sfidando te stesso, crescendo come persona e come artista e sentirti soddisfatto del tuo lavoro.

Tua moglie ha girato un documentario in cui si racconta la tribolata lavorazione di Solo Dio perdona: in questo film sono messe a nudo le tue insicurezze e le tua fragilità. Gireresti di nuovo un film come Solo Dio perdona e passeresti di nuovo attraverso quel caos?

Sicuramente. Io credo che ogni artista per definirsi tale debba affrontare quel caos che regna dentro ognuno di noi. Il caos va sfidato e bisogna muoversi al suo interno, per trovare la giusta ispirazione. Tutte le lavorazioni dei miei film sono state difficili: ci sono dei momenti in cui mi sono sentito il migliore del mondo, in cui pensavo di poter camminare sulle acque, e altri attimi di profondo sconforto. Il segreto è cercare di fare coesistere queste due dimensioni del proprio animo, prendere il meglio da entrambe e poi sfruttarle in una maniera creativamente interessante. L’importante è non farsi sopraffare nè dall’esaltazione nè dallo scoramento. So che può essere complesso e per certi versi terrificante, ma è anche una maniera per esorcizzare le proprie insicurezze e confrontarsi con i propri limiti.

Che cosa ti ha spinto a fare un film come The Neon Demon: feticismo delle immagini, curiosità di esplorare i limiti e le contraddizioni della bellezza o altro?

Faccio film che mi piacerebbe vedere e, come detto, metto sempre molto di me stesso in tutto quello che faccio. Una mattina mi sono svegliato e ho pensato “Io non sono bello, non sono nato nato bello”. Mia moglie, ad esempio, è tutto il contrario: è bellissima e lo è sempre stata; è nata così. Quindi mi sono chiesto cosa si provasse ad essere qualcuno di così bello ed essere invidiato da tutti. Anche mia figlia è molto bella e in più è giovane e sta crescendo in una società dove le immagini sono tutto. Questo è un altro dei temi portanti del film: la prospettiva di una sedicenne bellissima che rispecchia se stessa in un mondo fondamentalmente basato sull’apparenza. Cosa prova? Come si può sentire? Sono profondamente convinto che in ogni uomo ci sia una sedicenne fragile e spaventata dal mondo che la circonda e in questo film ho cercato di immedesimarmi e capire i suoi sentimenti.

La bellezza è centrale in questo film, ma è una bellezza che seduce e che cela una pulsione di morte. Una bellezza che scatena l’invidia ma anche la fame.

Io credo che nella bellezza si nasconda un aspetto profondamente horror e ho cercato di indagarlo. La longevità della bellezza, in un universo sempre più votato alla ricerca della perfezione innaturale, si è inevitabilmente degradata e ridotta. Queste modelle sono bellissime, ma hanno una carriera molto breve. La loro bellezza si consuma e dinnanzi a una giovane ragazza, innocente e stupenda, si scatena un io bestiale in queste modelle che cercano di conservare il loro splendore sfiorito attraverso una forma di cannibalismo tanto feroce quanto spietata.

Quindi il demone che si annida dietro la bellezza, ma perché il neon (che sappiamo essere un elemento distintivo dei tuoi film, ma perché hai deciso di inserirlo nel titolo del film)?

Amo il neon, come si vede effettivamente nei miei film precedenti: io sono cresciuto negli anni ’80 e quelli sono gli anni in cui il neon veniva usato nelle insegne ma soprattutto nei film di fantascienza che tanto adoravo. Quello che mi affascina del neon è probabilmente il suo essere contemporaneamente glamour e diffuso, un elemento di straordinarietà ma al contempo abbastanza comune. Il titolo Neon Demon sta a a significare questo: il neon si rifà a qualcosa di splendente, bello, e allo stesso tempo profondamente quotidiano, accessibile; il demone, invece, è ciò che si nasconde sotto le apparenze della bellezza e che si rivela in maniera inattesa.

In una recente intervista, Ryan Gosling ha raccontato della tua passione per le Barbie: è vero?

Assolutamente: ho una grande passione per le bambole e per le Barbie in particolare. Mi sono sempre piaciuti gli aspetti della femminilità latente di ogni uomo e sono affascinato dalle donne e dal potere che sanno esercitare. Ho sempre amato le Barbie e con questo film è come se avessi un po’ giocato con delle bambole in carne e ossa, queste modelle bellissime e algide che nascondono i loro demoni. La mia è una vita talmente ordinaria che grazie ai film posso giocare e realizzare le mie visioni e assecondare le mie passioni, anche le più insolite.

E la Barbie protagonista di questo film è Elle Fanning. Come l’hai scelta?

Non riuscivo a trovare un’attrice adatta e che avesse le caratteristiche che richiedeva il personaggio. Poi grazie a mia moglie ho scoperto Elle: ho visto alcuni dei suoi film e un suo book fotografico e sono rimasto folgorato. Lei era Jesse ed è stata subito la mia prima scelta. In lei c’è la dolcezza e la fragilità di una sedicenne e se io potessi essere una sedicenne non vorrei che essere Elle Fanning.

Come Flaubert sosteneva “Madame Bovary c’est moi”, tu puoi dire di essere Elle Fanning in questo film?

Assolutamente. Il suo personaggio riflette molto della mia personalità e tra me e lei si è instaurato un rapporto come quello di Ryan Gosling. Loro interpretano dei personaggi, ma è come se interpretassero me. Loro sono un parte di me. In pratica tra noi tre è come se ci fosse un ménage à trois ma senza sesso.

Spesso e volentieri hai parlato del tuo amore per il cinema italiano e qui tra noi è presente un autore che sicuramente conosci e che, vedendo anche questo ultimo film, ti ha ispirato in modo sensibile: Dario Argento.

A questo punto il regista italiano, presente in platea, si alza salutato dal caloroso applauso del pubblico e raggiunge Nicolas Winding Refn e Gianni Canova per la seconda parte della masterclass.

Canova: Anche se questa è la prima volta che vi incontrato, avete sempre espresso una stima reciproca l’uno per l’altro. Cos’è che Dario Argento apprezza particolarmente di Nicolas Winding Refn e quali sono i motivi che portano Nicolas Winding Refn ad amare il cinema di Dario Argento?

Argento: Quello che mi piace di Nicolas è la sua capacità di cambiare di film in film la sua pelle, pur mantenendo uno stile preciso e riconoscibile. Nei suoi film dominano i colori accessi, le idee, la creatività e tutto è immagine: è un cinema che mi piace molto, decisamente espressivo, che lui persegue con coraggio.

Refn: Devo ammettere che ho rubato parecchio da Dario in tutti i film che ho girato. Per questo film mi sono ispirato a Suspiria. Rubo molto dalle sue idee, dal suo stile, dalle immagini e dall’immaginario cui ha dato vita con le sue opere e cerco di imitarne anche la personalità che sento molto affine alla mia. Quello che apprezzo particolarmente di Dario, ad ogni modo, è la sua capacità di non cambiare mai scendendo a compromessi e tradendo se stessi. Lui è sempre stato molto coerente e questa è una qualità da ammirare.

C: Rimanendo al cinema italiano, un autore che amate molto entrambi è sicuramente Mario Bava.

R: Certo. Io ho avuto l’onore di presentare al Festival di Torino la versione restaurata di Terrore nello spazio e trovo che nel cinema di Bava ci sia tutto. Melodramma, fantascienza, azione, esistenzialismo: riuscire a catturare e a far coesistere tutto ciò vuol dire avere una creatività senza limiti.

A: Mario era un amico e un maestro, un esponente di un cinema che ha idee e cerca di improvvisare e inventare immagini, cercando la pazzia e esprimendo con enorme fantasia la gioia di usare una macchina da presa per raccontare ossessioni e demoni.

C: Tra i registi contemporanei di genere in Italia, uno dei più quotati attualmente è Stefano Sollima, autore delle serie Romanzo Criminale e Gomorra oltre che di Suburra. Sollima ha detto di sè stesso: “Sono uno storyteller buono, ma affascinato dal male”. Anche voi vi ritrovate in questa definizione?

R: Io sono convinto che più c’è male, più la storia che raccontiamo è interessante. Noi ammiriamo la forza di un personaggio, ma ci immedesimiamo nelle sue debolezze. Più cattivi e più complessi sono i personaggi, maggiore è l’empatia che si stabilisce tra loro e il pubblico. La complessità attira: lo stesso vale per la violenza. E la violenza è complessa quando è erotizzata, in quanto finiamo per provare attrazione e repulsione allo stesso tempo.

A: Personalmente sono attirato dalla violenza perchè la violenza ha qualcosa di profondo e rimanda a paure ancestrali e contemporaneamente ispiratrici. Racconto la violenza perchè per me è una gioia dell’espressività e non per cercare di esorcizzarla.

C: Molti grandi registi sono stati o saranno coinvolti in progetti televisivi. Spesso e volentieri si dice che la televisione e la serialità garantiscano una maggiore libertà espressiva rispetto al cinema. Siete d’accordo e state pensando di cimentarvi anche voi con il mondo del piccolo schermo?

R: Credo possa essere una esperienza utile e io ho già lavorato per la televisione, ma continuo a preferire il cinema.

A: Presto lavorerò a un progetto televisivo per la Rai, ma al momento non posso dire molto di più. Mi piacciono le serie, le seguo e credo sia un fenomeno interessante, ma a parte la prossima parentesi in tv, anch’io continuo a preferire il cinema.

A questo punto, terminata la masterclass, Nicolas Winding Refn incontra la stampa e risponde ad alcune domande dei giornalisti presenti, tra cui anche noi di LongTake.

La musica ha sempre un ruolo molto importante nei suoi film: si tratti di brani pre-esistenti o di tracce create ex novo. Qual è la sua idea del rapporto tra immagine e musica?

Io ho sempre considerato fondamentale la musica nei miei film. Ricordiamo sempre che la musica è stato un elemento presente nel cinema fin dagli albori: quando non c’era ancora il sonoro le proiezioni erano accompagnate da musica dal vivo. Per me la musica è fondamentale: all’inizio usavo brani di band spesso sconosciute, poi ho iniziato a usare pezzi pop unendoli a una colonna sonora originale. In tal senso ho trovato in Cliff Martinez un collaboratore ideale. Rispetto molto il suo lavoro e mi fido di lui: quando ho finito di girare un film gli dò carta bianca e sono sempre soddisfatto.

La bellezza e la brutalità sono due anime fondamentali di The Neon Demon: è come se fossero due forze soprannaturali che animano i personaggi. Come mai ha deciso di non calcare eccessivamente la mano su questo aspetto e dar vita a una storia che eccedesse ulteriormente sull’aspetto soprannaturale?

Perchè sono convinto che in una storia l’importante sia mescolare in maniera adeguata realismo e fantasia. Nelle favole, ad esempio, il confine tra verità e finzione è più interessante e credibile quando è presente un elemento di realtà. Eccedere su uno dei due aspetti credo sia controproducente.

Rispetto ai suoi film precedenti, con il dittico Solo Dio perdona e The Neon Demon sembra che il suo cinema abbia deciso di adottare una strada espressiva più votata all’astrazione, combinando i richiami al cinema di genere con un’estetica che si rifà alla videoarte. 

Effettivamente negli ultimi due film qualcosa è cambiato: cerco meno la linearità narrativa e mi diverto molto a sperimentare. L’estetica dei videogiochi fa parte del nostro immaginario e io ne prendo spunto, esattamente come faccio con l’arte in generale e anche con la video-arte. Mi piace pensare che nei miei ultimi due film siano presenti dei momenti visivi che si presentano come delle vere e proprie installazioni: al momento sembrano tra loro scollegati, ma man mano che il film prosegue prendono forma e acquistano un senso preciso all’interno del racconto.

Come giudica i nuovi modelli di fruizione cinematografica con le sale che hanno un ruolo sempre più secondario?

Il cinema ci sarà sempre, solo che è cambiato il modo di fruirlo e di percepirlo. Il futuro dell’intrattenimento sarà su internet, un foglio bianco che cambierà il senso del bene e del male: conterà molto la singolarità di chi crea senza compromessi. Sono ottimista sul futuro: abbiamo davanti a noi un numero infinito di possibilità e i mezzi per dar voce a singolarità e creatività personali.

Perchè ha deciso di dedicare un film al mondo della moda? Si tratta del punto di vista di un outsider su un mondo che conosce per sentito dire o ha avuto esperienze dirette in questo settore?

Non credo che The Neon Demon sia un film sulla moda. Si tratta di un film sul dietro le quinte di questo mondo: dietro la bellezza dell’apparenza c’è un universo brutale e violento e questo è quello che mi ha affascinato. L’invidia che esiste in qualsiasi ambito lavorativo e che in questo caso sfocia in qualcosa di feroce. Spesso e volentieri uso dei clichè per studiare e interpretare la realtà a modo mio. In questo caso attraverso la bellezza ho voluto raccontare fragilità e lati oscuri latenti.

Cosa può dirci dei suoi progetti futuri?

Tempo fa si era parlato di un serial su Barbarella, ma The Neon Demon è già il mio Barbarella, per cui quel progetto è stato accantonato. Con Lucisano stiamo lavorando a un progetto che si chiama Les Italiens, mentre negli Stati Uniti ho in ballo diverse cose, tra cui la produzione del remake di Cosa avete fatto a Solange?, un giallo italiano anni ’70 che amo molto.

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