La cosa d'oro
Das goldene Ding
1972
Paese
Rft
Generi
Mitologico, Avventura, Sperimentale
Durata
113 min.
Formato
Colore
Registi
Edgar Reitz
Alf Brustellin
Nicos Perakis
Ula Stöckl
Attori
Christian Reitz
Oliver Jovine
Konstantin Sautier
Hermann Haberer
Wolfgang Heinz
Michael Heinz
Klaus Kayser
Christian Stein
Ramin Vahabschadeh
Michael Jeron
Mario Zöllner
Alf Brustellin
Angela Elsner
Reinhard Hauff
Erich Beth
Colombe Smith
Alla morte del Re Esone (Alf Brustellin), il figlio adolescente Giasone (Christian Reitz) decide di perseguire il sogno del padre: raduna i più grandi re della Grecia e si imbarca sulla nave Argo alla ricerca del leggendario oro della Colchide. Liberamente tratto dalle Argonautiche di Apollonio Rodio e, più in generale, dai miti riguardanti la ricerca di Giasone del Vello d'oro, La cosa d'oro ne ripercorre gli episodi salienti, riproducendoli in modo astratto e spesso solo accennato o simbolico, dipingendo un'atmosfera sempre sospesa tra l'onirico e l'ingenua semplicità tipica dei proto-miti. I protagonisti, gli eroi della nave Argo, infatti, non sono altro che adolescenti, in accordo con l'idea di Reitz del mito come infanzia dell'umanità, caratterizzata dalla costante ricerca dell'avventura. Così l'intero viaggio viene costruito come un gioco di adolescenti, a partire dalla nave Argo, versione più in grande del modellino giocattolo costruito da Giasone. Anche l'incertezza riguardo alla "cosa d'oro" del titolo (che solo alla fine si scoprirà essere il vello), guida l'intera pellicola lungo i binari dell'avventura fanciullesca verso l'ignoto, piuttosto che verso la conquista di qualcosa di determinato. La cosa d'oro, infatti, non è il vello in sé per sé, come racconta il mito, ma il mare della mappa dei tesori del Mediterraneo, disegnata sul retro del vello stesso: come a voler dire che il vero tesoro è l'avventura, la ricerca che non ha mai fine. Incastonata in questa atmosfera narrativa e formale rarefatta ed eterea, la pellicola rischia spesso, di contro, di confondere la sua essenzialità con superficialità, fino a rendersi narrativamente indecifrabile in alcuni punti. Pur essendo una regia a quattro, Reitz ne ha sempre rivendicato la piena paternità, considerandola un'opera totalmente sua.
Maximal Interjector
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