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Arigatou gozaimasu, Isao Takahata

Ci sono persone per cui la vita è solo l’anticamera dell’olimpo, dell’eterna gloria come leggende, destinate a entrare nel mito dopo aver lasciato la loro esistenza terrena. È questo il caso di Isao Takahata, che si è spento in un ospedale di Tokyo a 82 anni, nella discrezione e nel silenzio che erano propri delle sue opere, una delicatezza d’animo che rende misteriose le cause dell’accaduto e che ora, nel viaggio che lo conduce all’eternità, lascia un grande vuoto nel cuore degli amanti della settima arte, in particolare dell’animazione, che è stato capace di elevare a poesia.

A 33 anni si presenta al mondo del cinema d’animazione con La grande avventura del piccolo principe Valiant, prodotto dalla Toei Animation e in cui Hayao Miyazaki si occupa delle scenografie: un’opera importante in quanto rende evidente il desiderio di indipendenza di un cinema animato, quello orientale, che dopo la grande influenza della Disney desiderava emanciparsi da una produzione eccessivamente infantile, provando a far proprie tonalità epiche, adulte, sociali e rendendo quindi possibile una destinazione d’uso trasversale per diverse fasce di pubblico. La vicinanza di idee con il cinema di Miyazaki si rende evidente con Panda! Go, Panda!, del 1972: un’opera palesemente destinata ad un pubblico infantile ma che nasconde in sé la sensibilità d’animo di un regista capace di comprendere fino in fondo questo mondo, di rappresentarne la magia attraverso due Panda antropomorfi e capaci di diventare famiglia per una piccola bambina rimasta orfana. Una sorta di prova generale per ciò che sarà Il mio vicino Totoro e che quindi resta tappa fondamentale nello sviluppo del cinema d’animazione, non solo orientale, di cui Takahata fu senza ombra di dubbio figura imprescindibile. E non solo per il cinema, visto che gli anni appena successivi sono dedicati alle produzioni televisive, su cui spiccano Heidi (1974) e Marco, dagli Appennini alle Ande, tratto da un racconto contenuto nel libro Cuore di Edmondo De Amicis, nel quale tematiche care al regista si fondono con un’inconfondibile qualità estetica, ormai divenuta iconica e riconoscibile al primo sguardo come propria del cinema di Takahata e Miyazaki, che consacrano definitivamente il loro sodalizio artistico fondando lo Studio Ghibli nel 1985. Ed è questa l’anticamera per l’opera più toccante di Takahata, senza ombra di dubbio il suo capolavoro assoluto: La tomba delle lucciole. Struggente e commovente, è una poesia che si sviluppa sotto forma di immagini forti, violente, dure, in cui i protagonisti sono la crudeltà e la fame nel periodo della guerra in Giappone, in cui l’indifferenza è sovrana e dove l’innocenza infantile è calpestata senza pietà, ma il tutto è rappresentato con una delicatezza e un profondo rispetto per l’animo umano. Con la sensibilità dei più grandi, potremmo dire, che permette di portare in scena la sofferenza senza cadere in trappole retoriche e senza perdere il rispetto per chi quel periodo lo ha vissuto, raccontando il tutto con gli occhi di un fanciullo che vive ancora nel corpo di un regista che a 53 anni ha regalato al mondo un’opera superba e imprescindibile nel cinema d’animazione di ogni tempo.

Straordinario, inoltre, come il desiderio di sperimentare e cercare nuove soluzioni visive non si spenga anche dopo i 50 anni, tanto che, dopo Pioggia di ricordi (1991), nel 1994 Takahata dà vita ad una delle sue opere più iconiche, partendo da un soggetto di Miyazaki, ossia Pom Poko, in cui la dimensione fiabesca domina sulla narrazione, la poetica ecologista è evidente e l’uomo dipinto in veste di mostro in opposizione alle tribù di procioni protagonisti ne è prova inconfutabile. La sperimentazione visiva arriva con la sua prima opera in digitale, I miei vicini Yamada, volutamente comica e parodistica, ma che al suo interno racchiude l’animo più profondo della poetica del regista, ossia una ricerca intima del senso della famiglia, da ritrovare nei piccoli gesti quotidiani, nella cose minute dietro cui si nasconde l’essenza di un rapporto sincero e puro, quello che da sempre ogni protagonista dei suoi film (o quasi) ricerca nelle sue avventure. Una ricerca stilistica ed estetica, quella di Takahata, che lo porta alla realizzazione di un’altra grandissima opera, La storia della principessa splendente, che vive della delicatezza delle immagini e che dietro alla meraviglia visiva in acquarello, racconta una favola in cui la donna è protagonista: una Principessa che viene da un mondo lontano e che, tuttavia, ancora una volta trova sulla terra una famiglia di origini umili ma sincere, pure, capaci di donarle l’amore vero di cui ha bisogno. Un film splendido, unico, che avrebbe probabilmente meritato considerazione maggiore anche agli Oscar, dove invece gli si preferì un po’ inspiegabilmente Big Hero 6. Sarebbe stato il degno riconoscimento alla carriera di un regista che con l’animazione ha saputo regalare sorrisi, lacrime, sogni e spaccati della società che ha vissuto, conosciuto e amato, sapendo trasmettere queste emozioni ad un pubblico che in lui ha riconosciuto quel calore e quella passione propri delle famiglie rappresentate nel suo cinema. È per questo che da oggi, con la sua morte, è come se ad andarsene fosse una parte di noi, con la certezza che quel calore e quella sensibilità unica resteranno sempre lì, nelle sue opere divise tra cuori umili, nostalgia e ricordi.

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