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Bussando ai cancelli del cielo - Addio a Michael Cimino

E’ morto all’età di 77 Michael Cimino, regista leggendario che fu al contempo uno dei più incendiari e non conciliati interpreti della New Hollywood e colui che ne decretò, con il sonoro flop de I cancelli del cielo, passato alla storia in maniera impietosa e proverbiale, il canto del cigno e il punto di non ritorno. Era un regista furente e coraggioso, Cimino, un artista prigioniero di fantasmi lontani, di ansie ancestrali, di ossessioni fameliche che nutrivano la sua ispirazione in profondità e lo rendevano una voce dalla timbrica unica, che per certi versi non si è più ripetuta, né prima né dopo di lui.

Della New Hollywood e delle sue istanze di rinnovamento Cimino ha incarnato il sapore più estremo e meno rassicurante, probabilmente perché nessuno ha raccontato l’America come lui, immortalandola tra splendore e macerie, tra verginità e perdita dell’innocenza, tra purezza incontaminata e corruzione latente. I migliori film di Cimino sono schiaffi dolorosi e sanguinanti al cuore degli Stati Uniti e alle loro contraddizioni, sospesi tra il magistero del John Ford più cupo e di Anthony Mann, della cui grandezza Cimino era indubbiamente figlio, e la lucida anarchia di Sam Peckinpah. Non faceva sconti, Michael Cimino, lavorando in maniera corrosiva sui nuclei dei rapporti sociali e di classe, sui contrasti e i buchi neri insiti nel concetto stesso di epica, puntualmente ribaltata e problematizzata dal suo sguardo acuto e critico, impietoso e straziante.

Nel glorioso Il cacciatore, nello sfortunato I cancelli del cielo e ne L’anno del dragone, probabilmente i suoi tre film più indimenticabili, Cimino si conferma puntualmente un regista romantico e disperato, un iconoclasta innamorato a tal punto delle sue creazioni da essere disposto a soccombere al loro cospetto, a lasciarsene travolgere e subissare. Il cuore e le viscere coesistevano meravigliosamente, nel cinema di questo maestro sfortunato e bigger than life, capace di incorniciare parentesi languide e sontuose e di immergersi nel cuore nero delle proprie storie e dei suoi personaggi con uguale urgenza e sincerità.

Un regista di ambienti, spesso impressionanti e sezionati con sublime maestria registica, e di attori, amati alla follia, uno per uno, di un amore purissimo. Lo stesso che tutti noi, da spettatori, sentiamo di restituire alla sua memoria, riconoscendo nell’opera di Cimino un monito ineguagliato, il lascito prezioso di un regista lirico e controcorrente, che ha sfidato se stesso pagandone a caro prezzo le conseguenze ma consegnandoci un cinema che non smetterà mai e poi di pulsare in maniera ambigua, prepotente e rancorosa. Di ambizione e di coraggio, di vita e di speranza. Bussando ai cancelli del cielo, senza chiedere permesso.

 

1. Il cacciatore (1978)

Probabilmente uno dei film meglio diretti in assoluto, un ensemble struggente di interpretazioni magnifiche e indimenticabili. Capolavoro abissale e senza ritorno, immersione gelida e angosciosa nelle ferite dell’America del Vietnam, controcampo agghiacciante alle illusioni ovattate e comode di cui la cultura a stelle e strisce si fa spesso portatrice e depositaria. Dalla sfrenatezza della spensieratezza alla cecità dell’orrore, con biglietto di sola andata per gli inferi. E il finale più bello e crepuscolare di sempre, nel quale è letteralmente impossibile trattenere le lacrime. La scena della roulette russa, cuore brutale del film, è entrata nell’immaginario collettivo.

2. I cancelli del cielo (1980)

Il punto di massima deflagrazione della New Hollywood nonché la sua condanna a morte (dopo il fiasco di Cimino, fatalmente, i produttori cominciarono a osare molto di meno), segna anche la massima forzatura del western in senso anti-classico. Il genere è gonfiato a dismisura fino a implodere, in maniera ovviamente abbagliante e figurativamente impressionante. Cimino non scompone e destruttura come il Peckinpah de Il mucchio selvaggio, ma estremizza l’incanto dell’America selvaggia per mostrarne le ceneri e gli ultimi fuochi. Alimentando un misunderstanding ovvio col pubblico e la critica dell’epoca, una ferita mai chiusa e ancora oggi dolorosissima.

3. L’anno del dragone (1985)

Per uno come Michael Cimino è sempre una questione d’amore e di disperazione, mai di filologia fine a se stessa, anche quando si affronta di pari petto il genere. Dunque non esita a trasformare il noir  e il poliziesco in una cavalcata metropolitana trascinante e senza barriere, in una sinfonia barocca e lussureggiante costruita intorno al corpo di Mickey Rourke, il cui personaggio è la personale risposta di Cimino all’Ethan Edwards di Sentieri selvaggi di John Ford, e agli echi visivi di Chinatown. Prodotto da Dino De Laurentiis e scritto da Oliver Stone, che definì Cimino “il più faraonico dei registi con cui ho mai lavorato”.

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