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"Chapter One: Once Upon a Time... in Nazi-occupied France": 10 anni fa Quentin Tarantino presentava così "Bastardi senza gloria"

Dieci anni fa, Quentin Tarantino ha regalato al cinema quello che, per sua stessa ammissione, potrebbe essere il suo capolavoro. E, in quanto tale, non poteva che essere la summa della poetica del postmoderno Quentin, regista che sin dal suo esordio ha abituato a incipt fologranti – “Ve lo dico io di cosa parla Like a Virgin…” – ma mai quanto quello di Bastardi Senza Gloria, titolo che omaggia Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, distribuito in America come The Inglorious Bastards.

Chapter One: divisione in capitoli, uno degli elementi cardine della poetica del regista, che spesso ha scandito in questo modo le sue narrazioni, non necessariamente rispettando l’ordine cronologico degli eventi. In questo caso, sì, ma sarà un altro ordine di eventi ad essere modificato: potere del cinema, grazie al quale Tarantino inventa una storia in grado di cambiare la Storia.

D’altra parte, quel “Once Upon a Time… in Nazi-occupied France” ci dà solo una vaga idea del periodo in cui potrebbero essere ambientate le vicende, ma nulla più: è il 1941, ma non si sa dove ci si trovi. Anzi, sembra suggerire sin da subito l’idea che possa trattarsi di una favola, di una fiaba, con quel “C’era una volta…” tipico dei racconti di fantasia, anche se non è da trascurare l’idea che possa essere un omaggio a Sergio Leone, regista idolatrato da Tarantino, e al suo C’era una volta il West. Dopotutto, anche la quiete famigliare dei McBain viene rovinata da un estraneo che arriva scortato, e lo stesso avviene mentre il signor LaPadite sta tagliando la legna e da lontano si sente un rumore di automobile in avvicinamento: le note di Per Elisa danno l’idea di una visita tutt’altro che gradita, la chitarra rafforza l’ipotesi precedente di un omaggio al western, come se non fosse sufficiente il campo lungo che anticipa l’arrivo del Colonnello Landa (il premio Oscar Christoph Waltz). Non sarà l’unico western omaggiato nell’incipt, ma ne parleremo alla fine.

Il colonnello delle SS è invitato ad entrare nella fattoria LaPadite e dopo una breve conversazione in lingua francese sulla bontà del latte prodotto, Landa e LaPadite restano soli, iniziando a parlare inglese, una lingua che sia da accordo tra i due. Sembra una conversazione cordiale, un semplice lavoro di ufficio, una formalità in cui la tensione di LaPadite sembra essere solo dovuta al fatto di trovarsi di fronte ad un controllo improvviso delle SS.

“I love rumors!”

Ad esclamarlo, un entusiasta Hans Landa. Tutto è costruito come già fatto in passato nella filmografia del regista, come se ci trovasse di fronte ad una delle sue classiche sequenze fitte di dialoghi taglienti  e brillanti, che certificano l’abilità di sceneggiatore di Tarantino. Eppure qualcosa non torna. LaPadite sostiene che i Dreyfus siano fuggiti in Spagna, la pipa si accende in uno dei tanti splendidi dettagli fotografici della pellicola: il dado è tratto. Ora non si torna più indietro. La macchina da presa ruota intorno ai due personaggi che dialogano, la tensione è evidente ma sembra sia ancora tutto sotto controllo, finché Tarantino non decide di omaggiare Alfred Hitchcock e il suo discorso sulla suspense, con un semplice movimento di macchina:

“La differenza tra suspense e sorpresa è molto semplice e ne parlo molto spesso. Tuttavia nei film c’è spesso confusione tra queste due nozioni. Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è già stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo al suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto – c’è un orologio nella stanza –; la stessa conversazione insignificante diventa tutt’a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena” (A. Hitchcock in Il cinema secondo Hitchcock)

La lenta carrellata verticale porta il nostro sguardo verso la bomba. Ma non sotto il tavolo, sotto le assi del pavimento, dove si nasconde la famiglia Dreyfus (il padre, Jacob, è Patrick Elias, attore svizzero figlio del cugino di Anna Frank). Ora LaPadite ha scoperto le sue carte, noi sappiamo ciò che sa lui e che Landa ancora non sa, e da questo momento smettiamo di chiederci quando il colonnello SS lascerà in pace un povero contadino francese e iniziamo a domandarci se riuscirà mai a scoprire il nascondiglio della famiglia ebrea e cosa accadrà dopo che lo avrà scoperto. Il sadismo di Tarantino arriva a far chiedere a Landa un altro bicchiere di latte “prima di andare”, lasciando la vana speranza che sia davvero arrivato l’epilogo positivo.

“Se un ratto si intrufolasse dalla porta proprio ora mentre io sto parlando…”

E invece, solo un attimo dopo, Landa introduce il discorso sul suo soprannome (da lui stesso rinnegato nel finale), il Cacciatore di Ebrei, come un predatore che ha deciso che è tempo di giocare con la sua preda una volta compreso di averla in pugno. Brillante il dialogo su ratti e scoiattoli portati a metafora della condizione degli ebrei, in cui la spiegazione razionale (“i ratti portano la rabbia”) viene smontata dal fatto che potrebbero farlo anche gli scoiattoli, portando il tutto su un piano puramente irrazionale. Illogico. “Non cambia ciò che prova”: emozionale, anche, se così si può dire. Il tutto concluso con un “Non le piacciono, non sa bene perché non le piacciono, sa solo che li trova ripugnanti”.

Dopo 14 minuti di chiacchiere, anche Landa estrae la sua pipa, è tempo anche per lui di accendere il fuoco, di chiudere il discorso aperto da LaPadite con il suo primo fiammifero. E, per farlo, non utilizza certo una pipa qualunque: quale potrebbe essere migliore di quella di Sherlock Holmes per esplicitare finalmente le sue incredibili qualità investigative, spiegate passo dopo passo ad un attonito LaPadite, al quale non resta altro che rimettere assieme i pezzi del puzzle costruito da Landa, scoppiare in un pianto di impotenza e rassegnazione e osservare l’esecuzione della famiglia che da tanti anni ormai nascondeva in maniera così efficace.

Ma non è finita qui. Anzi, a dire la verità, è da qui che comincia tutto. Un inquadratura dall’alto, elemento tipico dell’estetica di Tarantino, permette di vedere tra le assi del pavimento: qualcosa si muove. Proprio come un topolino, Shosanna esce da una piccola fessura sotto il pavimento e fugge disperata correndo per i campi di fronte alla fattoria. L’inquadratura della porta da cui esce Landa è un chiaro omaggio al finale di Sentieri Selvaggi, di John Ford.

“Au revoir, Shosanna!”

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