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Crocevia della morte: come il film più “classico” dei Coen diceva già molto dei loro paradossi postmoderni
Il 22 settembre 1990 usciva nelle sale americane il terzo film dei fratelli Coen: Crocevia della morte (Miller’s Crossing). Fin dalle prime opere il talento dei due registi era ben evidente, legato a stretto filo con quella corrente postmoderna che avrebbe fatto della rivisitazione degli stilemi classici il suo carattere distintivo. Dopo aver esordito con un noir, Blood Simple (1984), e aver affondato le mani nella commedia, Arizona Junior (1987), i due autori originari di St. Louis Park si approcciano al genere gangster in quello che, a un primo sguardo, può sembrare una delle pellicole più classiche della produzione coeniana. Superata una prima e superficiale lettura dell’opera, chi mastica a sufficienza lo stile dei due registi non può non notare tratti, stilemi e sfumature che contraddistinguono il cinema dei fratelli Coen. 

A una più canonica struttura di ascesa e caduta dell’antieroe, basti pensare alle sorti di Tony Montana in Scarface, in Crocevia della morte assistiamo a un vero e proprio girare in tondo del nostro protagonista, un Gabriel Byrne in una delle interpretazioni più significative della sua carriera. La pellicola inizia e finisce con due riferimenti a due capolavori del genere: Il Padrino (1972) e Il Padrino – Parte II (1974), rimando, questo, alla ciclicità delle dinamiche narrative e, conseguentemente, all’impossibilità per il nostro eroe di evadere dalla sua situazione. Tom Reagan, nonostante dia la sensazione di muovere le pedine della scacchiera grazie al suo acume, è anche lui in balia delle pericolose correnti che pervadono il mondo dei gangster. La macchina da presa dei Coen si sofferma più volte sul cappello di Tom, perennemente in fuga dal suo proprietario il quale non può che perseverare in questa perenne rincorsa a qualcosa che forse simboleggia una mancanza nella vita del gangster, un vuoto colmabile solo con l’affetto e la tenerezza della donna che desidera (la stessa Verna interpreta così il sogno di Reagan) ma alla quale sarà costretto a rinunciare, intrappolato com’è nel suo stesso personaggio di gangster dal cuore di ghiaccio.



Tom Reagan ci viene presentato come uno di quegli uomini che è bene non farsi nemici ma, al contempo, i suoi difetti e le sue debolezze (giocatore incallito e sfortunato al gioco; la maschera di uomo di ghiaccio viene meno quando si ritrova faccia a faccia con la morte) vengono più volte rimarcati creando così un interessante gioco di contrasti. Ed è proprio contrasto antifrasico una delle caratteristiche del cinema dei Coen, un tipo di cinema che lega sempre la pesantezza alla leggerezza, il dramma alla commedia, dando vita a uno strano e paradossale amalgama in grado di restare perfettamente in bilico fra il serio e il faceto




Ed è così che, anche in quello che all’apparenza è il più classico film dei Coen, ci ritroviamo a osservare sparatorie e scazzottate in cui l’iperbole e l’ironia la fanno da padrone, mentre personaggi come il boss irlandese che si rivelano essere degli inguaribili romantici. L’intera struttura narrativa viene ulteriormente distanziata dai topoi classici mediante l’inserimento di una sottotrama, il ménage à trois omosessuale fra tre malavitosi, impensabile per un tradizionale film sui gangster. Miller’s Crossing è in fondo un perfetto esempio di cinema postmoderno, un crocevia tra passato e futuro.



Simone Manciulli
Maximal Interjector
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