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Claudia Cardinale, la donna libera e indipendente che ha segnato la storia del cinema
Nata a Tunisi il 15 aprile 1938, Claudia Cardinale rappresenta molto di più di una "semplice" attrice, è un auentico simbolo dell'Italia nel mondo, anche al di là dei confini cinematografici. All'interno di una folgorante carriera che dura ormai da più di sessant'anni, Claudia Cardinale ha raggiunto il proprio apice artistico negli anni '60, decennio in cui è stata protagonista assoluta anche a livello internazionale. Germi, Fellini, Visconti ma anche Blake Edwards e Richard Brooks, tanto per fare qualche nome, sono solo alcuni dei registi che l'hanno diretta durante quell'irripetibile decade di cinema.

«Sono contenta di essere una donna, ma solo perché ho capito che la donna è un essere forte, persino più dell'uomo. Talmente forte da saper sopravvivere a dolori grandissimi, che nessun uomo potrà mai capire fino in fondo, perché non fanno parte della sua storia e del suo destino»


Il suo volto angelico, di una bellezza solare e notturna fuori dal comune, incornicia gli occhi più espressivi che si siano mai visti sul grande schermo. Dietro a un velo di malinconia, si nasconde una donna forte e determinata, capace di incarnare, in un'epoca dove la femminilità era spesso rapportata solo al grado di concessione agli stereotipi cari all'allupata sfera maschile, un nuovo modello femminile che rivendica la propria indipendenza. Abbattendo i codici precostituiti con cui il grande pubblico era abituato a vedere le donne al cinema, Claudia Cardinale ha dato vita a una rivoluzione gentile, portando sullo schermo fragilità e profonda consapevolezza, attraverso uno spirito battagliero che precorreva i tempi in termini di aspirazione alla parità di genere nei rapporti affettivi e professionali.

«Io amo calarmi nei personaggi con l'esperienza che ho della vita, della mia vita. Mi piace recitare, per la possibilità che mi dà di vivere, oltre la mia, altre vite, altre storie: parto da me, e cerco di inventarmi nuovi modi di essere donna»



«Pietro Germi è stato il primo a mostrarmi che cos'è veramente il mestiere dell'attore: mi ha insegnato a recitare. È sul set di Un maledetto imbroglio – un film che io giudico perfetto, straordinario, sia come struttura sia come sceneggiatura – che ho cominciato a innamorarmi del mio mestiere: ho capito come ci si doveva comportare davanti alla macchina da presa, ho cominciato a "sentirla".  Per la prima volta, diretta da Germi, mi sono sentita a mio agio. perché capivo che facevo tutt'uno con la macchina, se era collocata nel punto giusto. Sentivo che quell'occhio era mio amico, mio complice. E mi sono liberata dalle mie inibizioni».



Spostando di una trentina d'anni l'azione contenuta nel romanzo di Vitaliano Brancati, Mauro Bolognini con Il bell'Antonio (1960) dipinge un ritratto sofferto di un'Italia post-bellica perennemente schiava delle apparenze e vittima dei pregiudizi sociali. Il non detto della sceneggiatura (alla cui stesura prese parte anche Pier Paolo Pasolini) è il vero punto di forza del film, che si avvale delle ottime interpretazioni di Marcello Mastroianni, dongiovanni ferito, e di Claudia Cardinale, splendida donna-angelo privata della sua funzione salvifica. Rispetto alla materia di base viene meno la feroce critica alla società fascista (il testo letterario è ambientato negli anni Trenta), ma le stoccate taglienti non mancano. Claudia Cardinale a proposito di Mastroianni: «Con quello sguardo scuro e dolce, l'"occhio di velluto" che ha sempre caratterizzato il latin lover, aveva tutto ciò che serve per piacere. E piaceva molto. La sua gentilezza, quel misto di sensibilità femminile e di forza virile, la sua delicatezza, la sua bellezza e la sua riservatezza parlavano in suo favore».


© Giovan Battista Poletto

Malinconico dramma senza tragedie, La ragazza con la valigia (1961) è anzitutto un saggio della maturità di Valerio Zurlini nella direzione degli attori e nell'ambientazione di una storia intima nella provincia italiana degli anni Sessanta. La casta storia d'amore mascherata da tenera amicizia tra il sedicenne Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) è di quelle che non si dimenticano. Un'opera anche coraggiosa nel delineare la crudeltà “innocente” del personaggio della Cardinale, forse all'apice del suo fascino. Poetico e commovente, senza un'ombra di retorica. Presentato in concorso al Festival di Cannes.


Sempre del 1961 è La viaccia, con buona probabilità il miglior film di Mauro Bolognini. Un intenso dramma realista dalla forte matrice letteraria e dallo spiccato gusto pittorico della mesa in scena, contraddistinto da un minuzioso studio dei caratteri dei personaggi. Bolognini approfondisce le psicologie dei diversi protagonisti, a partire da Amerigo (Jean-Paul Belmondo), un ragazzo che interrompe l'eterna tradizione contadina di famiglia, creando scompiglio. In un mondo, quello dei padri, dove contano soltanto il possesso e la proprietà, il giovane rompe le regole e s'interessa unicamente ai sentimenti, innamorandosi di una prostituta, Bianca (Claudia Cardinale). Meraviglioso il lavoro del direttore della fotografia Leonida Barboni, magnifici i costumi di Piero Tosi e impeccabili le scenografie di Flavio Mogherini.



Il 1963 è l'anno della consacrazione assoluta per Claudia Cardinale: a pochi mesi di distanza, lavora sia per Visconti sia per Fellini, i due "mostri sacri" del cinema italiano che la tradizione voleva rivali, ovviamente in senso cavalleresco e non secondo un'accezione da derby calcistico. Presenza femminile misteriosa ed eterea, in è una meraviglia. «Sul set di Visconti, il clima era quasi religioso: non si scherzava, non si rideva, non ci si lasciare mai andare, neanche durante le pause. Si viveva, per tutta la lavorazione, un clima quasi di clausura, ti chiudevi alle spalle tutto quel che riguardava il mondo esterno e vivevi solo il film e la sua realizzazione. Federico Fellini, al contrario, quando lavorava aveva bisogno della confusione, sceglieva di essere circondato dal massimo della volgarità e della "caciaroneria". Federico Fellini si isolava all'interno del massimo del rumore e del disordine».


Sicilia, prima dello sbarco dei Mille: il Principe Don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster), preoccupato per i cambiamenti politici e culturali che vede inesorabilmente compiersi intorno a sé, si impegna affinché il nipote Tancredi (Alain Delon) si fidanzi con la bella Angelica (Claudia Cardinale). Durante un ultimo, memorabile ballo, fastoso e funereo allo stesso tempo, il principe si trova di fronte l'inevitabile fine della realtà di cui era protagonista. Rilettura critica del Risorgimento italiano, i cui moti rivoluzionari sono sempre presenti sullo sfondo, Il gattopardo, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), pubblicato postumo nel 1958, è una lucida analisi fuori dal tempo dell'effimera appartenenza patriottica delle classi politiche italiane. Il vecchio mondo incarnato dal Principe di Salina, ancora legato a nobili ideali di alta levatura morale, tramonta per essere sostituito dal nuovo mondo di Tancredi, contraddistinto dal potere del denaro, attraverso un malinconico processo di dissoluzione tipicamente viscontiano che segna la fine di un'epoca. Una delle tappe fondamentali all'interno della carriera di Claudia Cardinale. «Luchino ha fatto e farà parte per sempre della mia vita: è nei miei pensieri, nei ricordi, nei sogni, ma lo ritrovo persino più concretamente, materialmente, nel viso e nello sguardo che ho oggi, nelle mie mani».


«Luchino Visconti è un romantico. Per lui il tramonto sarà sempre più affascinante dell'alba, e la bellezza è illuminata dalla tragedia che porta in sé».


Nel 1963, insieme alla collaborazione con Visconti e Fellini, arriva anche quella con il maestro della commedia sofisticata Blake Edwards. La Pantera Rosa, inimitabile caspostipite della celebre serie comico-poliziesca, è una delle pellicole più iconiche della Hollywood autoriale e spensierata degli anni '60, autentico manifesto di un'epoca giocato sul glamour dei protagonisti, sulla perfezione della scrittura e sulla raffinatezza della regia. Claudia Cardinale e David Niven fanno faville, ma si percepisce già l'esplosivo potenziale di Peter Sellers nei panni dell'ispettore Clouseau, il quale diventerà il protagonista assoluto dal secondo capitolo in poi. Frizzante ed elegantissimo, da vedere e rivedere.


1964
© Chiara Samugheo


Claudia Cardinale è stata anche un riferimento assoluto anche dal punto di vista della cultura pop, influenzando nello stile e nel look innumerevoli attrici dell'epoca.


Durante la sua incredibile carriera, Claudia Cardinale ha dimostrato di essere una anti-diva di caratura internazionale. Nel 1964 prende parte al film Il circo e la sua grande avventura, magniloquente epopea circense firmata da Henry Hathaway, navigato maestro hollywoodiano classico. Accanto a lei, John Wayne e Rita Hayworth, «una delle testimonianze viventi dell'infelicità delle attrici legata alla paura di invecchiare».



Ambientato in un'epoca post-frontiera (il primo Novecento delle rivolte in Messico, della genesi delle ideologie ma anche del proto-capitalismo), I professionisti (1966) è uno dei risultati più alti ottenuti da quel gran regista e sceneggiatore che è stato Richard Brooks. Avventuroso ma cinico e spietato, amarissimo eppure innegabilmente intriso di romanticismo, il film è un riferimento assoluto all'interno del genere western, letto in chiave revisionista. Strepitosi i quattro interpreti principali (Burt Lancaster, Lee Marvin, Robert Ryan e Woody Stroode), veterani della Hollywood d'oro, cui si aggiunge una Claudia Cardinale sensuale e iconica, cuore pulsante attorno a cui è costruita la pellicola. Fotografia di Conrad L. Hall e colonna sonora di Maurice Jarre. Meraviglioso.



«Se ti gira puoi sbattermi sul tavolo e divertirti come vuoi, e poi chiamare anche i tuoi uomini. Beh, nessuna donna è mai morta per questo. Quando avrete finito mi basterà una tinozza d'acqua bollente e sarò esattamente quella di prima, solo con un piccolo schifoso ricordo in più». C'era una volta il West (1968) di Sergio Leone, emozione allo stato puro. Brividi.

© Angelo Frontoni

Dopo la celebre “Trilogia del dollaro” che l'ha reso famoso in tutto il mondo, con C'era una volta il West Sergio Leone punta ancora più in alto e realizza una delle pellicole più raffinate ed emozionanti dell'intera storia del cinema. Si tratta di un canto funebre e malinconico nei confronti di un'epoca che sta finendo e di un genere ormai al tramonto: l'omaggio alla leggenda del western realizzato da Leone è una maestosa sinfonia audiovisiva, dove le immagini del regista e le musiche di Ennio Morricone danzano armoniosamente in un «balletto di morte» (come scelse di definirlo lo stesso autore) monumentale e, per molti versi, inarrivabile. La riflessione sul tempo (della Storia, del cinema, del ricordo) si sviluppa tramite un'impressionante dilatazione interna delle sequenze, dove i rumori, i suoni e i silenzi vanno a compenetrarsi con una serie di movimenti di macchina e tagli di montaggio articolati, impeccabili ed eleganti. Il regista dà pieno sfogo al suo campionario di stilemi (la vendetta, il potere dei soldi, il duello finale) e di personaggi tipo del genere di riferimento: il vendicatore senza nome, il proprietario terriero, il bandito romantico e una donna, Jill McBain, che diventa figura centripeta a cui tendono, in un modo o nell'altro, tutti gli uomini coinvolti. «Ho voluto un gran bene a Sergio: il nostro era un legame di grande affetto. Con il suo bellissimo film mi ha regalato un personaggio magnifico. Solo amando le persone, come lui le amava, si può fare un film come quello. Amava davvero questo lavoro, questo gioco, questa meravigliosa finzione. Amava il prodotto finito, e la vita di set. Amava moltissimo gli attori. Amava il cinema e viveva per il cinema».


Il regista Werner Herzog, Claudia Cardinale e Klaus Kinski durante la lavorazione di Fitzcarraldo (1982), titanico e allucinato film di avventura dalla lavorazione a dir poco travagliata. Un progetto folle che ha messo insieme tutte le ossessioni dell'autore tedesco, dall'atto sublime della creazione artistica all'eterna ambizione dell'uomo di piegare la natura.



Ispirato a una pièce di Raul Brandão del 1923, Gebo e l'ombra, ultimo film del maestro portoghese Manoel de Oliveira (1908-2015), si sviluppa in uno spazio-tempo indefinito, privo di coordinate vere e proprie, allo scopo di sfruttare l'impostazione teatrale per portare a compimento una toccante riflessione sui rapporti generazionali. Magnificamente illuminata dalle luci delle candele, è un'opera intrisa di un'atmosfera raffinata e malinconica, curatissima nei dettagli e interpretata da un cast in gran forma: oltre a Claudia Cardinale, meritano un plauso Michael Lonsdale e Jeanne Moreau.

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