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Gian Maria Volonté: l'"uomo contro" che incarnò il cinema civile italiano

«Posso dirvi che, vedendo Gian Maria Volonté, capirete cosa vuol dire il mestiere dell'attore»
– Giuliano Montaldo



 

Il 9 Aprile 1933 nasceva a Milano Gian Maria Volonté, uno dei più grandi e stratificati interpreti del cinema italiano (e non).

Il volto spigoloso, lo sguardo magnetico, lo straordinario talento mimetico e metamorfico, l’appassionata (e passionale) dedizione nei confronti delle tematiche sociali: la persona Volontè incarna(va) con straordinaria impetuosità le perenni tensione e compatibilità tra uomo, attore e personaggio. Qui appellandosi a una forza comunicativa limpida, seppur talvolta rude; qui incarnando le contraddizioni e i conflitti che lacerano l’uomo e lo spingono a sfidare se stesso prima degli altri, la logorante dialettica tra ideologia e disillusione.

«C’è una doppia trasfigurazione: una trasfigurazione di Volontè nel personaggio […]; e poi c’è una trasfigurazione del personaggio in Volontè, il personaggio ritorna a Volontè, alla sua allucinazione, alla sua sofferenza di stare al mondo,
alla sua ansia spesso puerile di non farcela, tutte cose che ne fanno un grandissimo attore,
forse il più grande che ci sia in Italia oggi nel cinema»

- Francesco Rosi

 
Il repertorio di personaggi indimenticabili incarnati da Volontè è straordinario, sia per la molteplicità dei volti, sia per la versatilità e la caratterizzazione degli stessi. Eppure, è possibile riscontrare un leitmotiv di importanza capitale. In un’epoca in cui a primeggiare nel nostro panorama cinematografico erano i quattro mostri + 1 della commedia all’italiana (Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi, Mastroianni), Gian Maria Volontè, Francesco Rosi, Elio Petri e Damiano Damiani furono gli “uomini contro” che si caricarono sulle spalle il peso del cinema di impegno civile (e delle aspre critiche censorie che lo tallonavano).



Attore militante per eccellenza, ciascuna scelta artistica e attoriale di Gian Maria Volonté ne riflette la viscerale indole politica. Da Lulù, memorabile protagonista de La classe operaia va in Paradiso all’intoccabile Dottore di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, passando per il Presidente di Todo Modo o il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli: ogni personaggio incarna con struggente veridicità il frammento di un vastissimo spettro socio-esistenziale.

«Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un'invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c'è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l'arte e la vita»
- Gian Maria Volonté


In occasione del compleanno di Gian Maria Volonté, ripercorriamone insieme la straordinaria carriera attraverso dieci titoli e personaggi che lo hanno reso un unicum.


Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964)

 «Al cuore Ramon, al cuore, altrimenti non riuscirai a fermarmi. Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Avevi detto così. Vediamo se è vero. Raccogli il fucile, carica e spara»


 

Primo capitolo della cosiddetta "Trilogia del dollaro" e opera rivoluzionaria con la quale Sergio Leone diede il via al fortunato genere del western all'italiana. Gian Maria Volonté, allora trentenne con un'impostazione attoriale prettamente teatrale, interpreta il bandito Ramòn, villain destinato a entrare nella storia. Un ruolo complesso che destò non poche difficoltà nel giovane Volonté: «Leone mi disse di esercitarmi ad aggrottare la fronte. Alla fine, entrai così nella parte, che costrinsi Clint Eastwood a spararmi altre tre pallottole prima di cadere a terra. Mi sentivo troppo cattivo per morire!».



Film che consacrò le carriere di Volonté e Leone, Per un pugno di dollari rappresentò un successo di pubblico clamoroso e inaspettato. In primis per lo stesso Volonté, il quale parlava così all'Unità: «Sto facendo un filmetto in fretta e furia per pagare i debiti del Vicario (pièce teatrale da lui prodotta e interpretata finita sul lastrico); figuratevi che è un western italiano, e si intitola Per un pugno di dollari. Lo faccio veramente per un pugno di dollari, ma certo non può nuocere alla mia carriera. Mi hanno conciato come un matto, sono irriconoscibile, e nei titoli di testa avrò persino uno pseudonimo americano, John Wells. Insomma, non corro alcun rischio. Chi volete che vada a vederlo?»



Per qualche dollaro in più (Sergio Leone, 1965)

«Quando la musica finisce, raccogli la pistola e cerca di sparare. Cerca.»


 

Il film che segnò la trasformazione di Sergio Leone in Autore a tutto tondo. Come i successivi C'era una volta il West (1968) e C'era una volta in America (1984), Per qualche dollaro in più è un lungometraggio nostalgico che riflette malinconicamente sullo scorrere del tempo: l'arrivo della ferrovia, minaccia di un cambiamento che porterà un intero mondo (il far west) a perire; il passato, unica chiave di volta per dare un senso al proprio presente, simboleggiato da due carillon che scandiscono la durata del duello finale. Un cast strabiliante in cui a spiccare è Gian Maria Volonté, straordinariamente intenso nei panni del tormentato Indio, personaggio succube delle droghe e di un senso di colpa da cui non potrà mai liberarsi, «assassino dostoevskiano» e voyeurista che cadrà vittima, insieme all'amata, di un vagheggiamento amoroso allucinato e violento.


 

Quién sabe? (Damiano Damiani, 1966)

«E tu non comprare pane, con questo dinero, hombre... compra dinamite! Dinamite!»



Dall'Italia pre-sessantottina ci trasferiamo nel Messico rivoluzionario del 1917.  Quién sabe? è un western all'italiana picaresco e avventuroso, che rappresenta un buon esempio di cinema popolare di qualità, in cui il marcato sottotesto politico dà spessore all'agile sceneggiatura di Salvatore Laurani e Franco Solinas. Spargimenti di sangue in nome dei propri ideali di libertà, lotta di classe, genuino spirito anarchico, codardia e coraggio, anti-imperialismo: un film di genere che maschera l'impegno civile dietro all'impianto tipico della migliore tradizione dello spaghetti-western portato al successo, nella sua formulazione più "nobile", da Sergio Leone. Qui Gian Maria Volonté è El Chuncho, rivoluzionario a capo di una banda che ruba le armi all'esercito per rivenderle alle truppe del generale Elías. In una delle sue ultime prove sul terreno polveroso del selvaggio West, Volonté si carica sulle spalle tutta la forza rocambolesca del film, regalando un'interpretazione goliardica, cialtrona, "brutta, sporca e cattiva", ma non per questo priva della più tragicomica disillusione.


Uomini contro (Francesco Rosi, 1970)

«Basta. basta di questa guerra di morti di fame, il nemico è quello lì dietro di noi.»


Tratto dal memoriale autobiografico di Emilio Lussu Un anno sull'Altipiano, che raccontava la drammatica vicenda della Brigata Sassari sull'Altopiano di Asiago tra 1916 e 1917, segnò una dei passaggi più radicali nella filmografia di Francesco Rosi. Ispirato dal valore assoluto e non negoziabile dell'antimilitarismo, raccontò la Grande Guerra spogliandola quasi completamente da ogni retorica. L'atto d'accusa verso le alte gerarchie militari fu chiaro e diretto, incarnato al meglio dalla lucida rabbia di un Gian Maria Volonté alla prima di una serie di memorabili collaborazioni con il regista napoletano.


Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970)

«Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile! Scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!»



Primo episodio della cosiddetta trilogia della nevrosi (completata da La classe operaia va in paradiso del 1971 e La proprietà non è più un furto del 1973). Petri e lo sceneggiatore Ugo Pirro raccontano il delirio di onnipotenza di un burocrate consapevole della propria impunibilità in quanto incarnazione dell'ordine costituito. «Qualunque imposizione faccia su di noi, egli è servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano»: nella citazione da Kafka che conclude il film sta il senso di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, audace ritratto dell'arroganza del potere e della fragilità psicologica di chi è chiamato a garantire l'ordine, incerto tra pulsioni autoritarie e la necessità di persuadersi delle proprie ragioni, tra la cinica spavalderia dell'intoccabile e un infantile bisogno di attenzioni. In una delle sue interpretazioni più celebri e raggelanti, Gian Maria Volonté offre un'ulteriore e straordinaria prova del proprio talento eclettico.




La classe operaia va in Paradiso (Elio Petri, 1971)

«Operai, operaie! Vi parlo a nome dei vostri compagni studenti. Sono le otto del mattino. Oggi, quando voi uscirete, sarà già buio. Per voi la luce del sole oggi non splenderà. Vi cuocerete al cottimo. Otto ore di cottimo! E uscirete stanchi, svuotati, convinti di avere guadagnato la vostra giornata e invece sarete stati derubati. Sì, derubati di otto ore della vostra vita!»


 

Dopo il successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), la coppia Petri-Volonté racconta l'alienazione del lavoro in fabbrica come vertice di uno smarrimento collettivo che porta alla spersonalizzazione individuale e al distacco progressivo da un mondo che non si riesce più a comprendere e in cui è impossibile identificarsi. Il lavoro a cottimo si presenta come una normalizzazione di un processo apparentemente irreversibile di meccanizzazione e perdita di spessore umano, con relativa regressione a uno stato semi-animalesco e degradato e una distinzione sempre più labile tra l'operaio e il suo strumento di lavoro. Lo stile di Petri anche in questa occasione riesce a coniugare sapientemente il taglio grottesco con un surrealismo cupo e rabbioso dando forma espressiva a un disagio lacerante incarnato da un magnetico Gian Maria Volonté, in una delle interpretazioni più impressionanti della storia del cinema italiano. Il film si aggiudicò la Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1972, in ex aequo con Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi, anch'esso interpretato da Volonté.




Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972)


«Lei crede di avere delle opinioni personali molto precise nei nostri confronti e invece anche lei è influenzato,
come dire: teleguidato»


 

Come in Salvatore Giuliano (1962), è dalla ricomposizione della salma del protagonista che Rosi sceglie di cominciare, quasi a suggerire subito un sotterraneo parallelismo tra le due morti. Nella successiva giustapposizione delle sequenze, nervosa e sincopata, ogni tassello del mosaico serve a disegnare il ritratto in fieri di una figura chiave nella storia dell'Italia repubblicana, nella sua complessa dimensione umana e politica. Nel suo Mattei, Volonté infonde un esuberante slancio vitalistico, essenziale per comunicare il senso della missione civile di cui si sente investito: guidare lo Stato verso un utilizzo accorto delle sue risorse energetiche, in grado di favorire lo sviluppo economico di tutto il Paese. Storica Palma d'oro a Cannes ex-aequo con La classe operaia va in paradiso (1972) di Elio Petri.

Sbatti il mostro in prima pagina (Marco Bellocchio, 1972)

«Tieni in secondo piano la pena di morte, che poi è un'arma a doppio taglio. Oggi reclamano la pena di morte, domani manifestano per la sua abolizione. Gli italiani hanno buon cuore.»


 

Più passano gli anni, più Sbatti il mostro in prima pagina rivela di avere anticipato tendenze malsane nella gestione dell'informazione italiana. Alla sua uscita fu feroce e spietato documento di un'epoca in continuo smottamento; oggi funziona come grimaldello per comprendere come la nostra epoca non sia mai riuscita davvero a liberarsi di meccanismi e trappole mentali derivate da quegli anni di tensione. Esemplare ancora una volta Gian Maria Volonté, ambiguo e mefistofelico, strepitoso nell'analizzare il significato recondito dei titoli dei giornali. 

Todo Modo (Elio Petri, 1976)

«Il peccato degli uomini di potere è degno dell'inferno più d'ogni altro.»



Penultimo lungometraggio per il cinema di Elio Petri, e uno dei suoi migliori. Prendendo spunto dalla pratica religiosa degli Esercizi Spirituali, approvata dalla Chiesa nel 1548, il film è un inquietante apologo che precorre la dissoluzione e l'auto-annientamento dell'ideologia politica. La ricerca dell'identità di partito (smarrita?) deve necessariamente passare da una riconciliazione interna che, invece, assume i tratti di un funereo cerimoniale. Sullo sfondo di una fantapolitica di disturbante realismo, Gian Maria Volonté offre una prova superba nei panni del Presidente (modellato a immagine e somiglianza di Aldo Moro). Al suo fianco Marcello Mastroianni, che regala una delle più grandi interpretazioni di sempre.




Cristo si è fermato a Eboli (Francesco Rosi, 1979)

«E poi, forse è vanità, ma mi pareva stonato che il luogo dove ero costretto a vivere non avesse in sé un'aria di costrizione, ma fosse sparso e quasi accogliente; così come al prigioniero è di maggior conforto una cella con inferriate esuberanti e retoriche piuttosto che una che assomigli apparentemente a una camera normale.» - Carlo Levi


 

Dopo aver conosciuto Carlo Levi durante le riprese di Salvatore Giuliano (1962), Francesco Rosi per anni aveva coltivato il desiderio di portare sul grande schermo una sua opera. Il film tratto dal suo scritto più popolare vide la luce solo nel 1979, quattro anni dopo la scomparsa dello scrittore. Tra i molteplici adattamenti letterari di Rosi, è uno dei più felici, in cui è ancora oggi percepibile la tensione emotiva e intellettuale del regista verso la materia trattata. L'afflato lirico che pervade ogni sequenza deve tantissimo ai luoghi scelti come location e alla splendida interpretazione di Volonté, raffreddata dai suoi toni più nervosi e pervasa da una docile pacatezza.

 

Viola Franchini

Maximal Interjector
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