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Homemade, le recensioni dei 17 corti d'autore in quarantena di Netflix
Sono diversi i registi internazionali che hanno preso parte al progetto Homemade, la raccolta di cortometraggi (della durata tra i sei e i dieci minuti) firmata Netflix che ha impegnato diversi artisti durante il periodo di lockdown e che è disponibile sulla piattaforma streaming dal 30 giugno, cioé da oggi. 

Moltissimi nomi importanti tra i 17 totali, da Pablo Larraín a Paolo Sorrentino, arrivando a Kristen Stewart, Ladj Ly, Maggie Gyllenhaal e Nadine Labaki: tutti loro hanno raccontato con il proprio stile il modo di vivere la quarantena. 

L'unica regola per i registi era l'utilizzo di oggetti e attrezzature trovate nelle proprie abitazioni, in modo da poter dare uno sguardo più vicino al loro luogo di lavoro in un momento così delicato. In proposito Larraín, deus ex machina dell’operazione insieme al fratello Juan de Dios Larraín con la loro casa di produzione, Fabula, e a Lorenzo Mieli di The Apartment, ha dichiarato che si tratta di «un messaggio sulle avversità e di come, pur proveniendo da diverse culture e da diversi paesi, tutta l'umanità si sia trovata a sperimentare la stessa esperienza, anche se in maniera differente». Teresa Moneo ha sottolineato in aggiunta che «ogni regista ha creato qualcosa di personale e il nostro lavoro è stato di amalgamare i diversi corti divisi per tematica, per quanto possibile»



Di seguito vi riproponiamo l’elenco dei 17 partecipanti e il luogo di provenienza dei singoli cortometraggi, corredandoli con le nostre impressioni su ognuno di essi: delle mini-recensioni cui abbiamo anche dato dei voti, un po’ di pancia e un po’ per gioco, non essendo certo operazioni in grado di andare oltre, nella stragrande maggioranza dei casi, rispetto alla loro natura estemporanea. 

LADJ LY - Clichy Montfermeil (Francia)

Dal regista de I miserabili, presentato in Concorso al Festival di Cannes 2019 e attualmente tra i film più visti in in sala in Italia dopo essere stato disponibile per un po' soltanto in streaming, il corto che inaugura il progetto è un prolungamento dell’opera prima del cineasta francese. Se I miserabili è una sorta di blockbuster delle periferie francesi, con tanto di droni per affrontare una nuova rappresentazione dei conflitti delle banlieue e calarsi in essi dall’alto, questo corto ne ripropone, in chiave minore, lo spunto estetico-tematico, riducendolo di fatto da lungo a corto. Un po’ come quando a scuola si copia il minimo sindacale per arraffare la sufficienza e nulla più. Voto: 6



PAOLO SORRENTINO - Roma (Italia)

«La tv è mia, non intendo vedere ancora tre stagioni su di te», dice un Papa Francesco in versione pupazzo di cera al corrispettivo in miniatura della regina Elisabetta, che vorrebbe rivedere The Crown di Netflix e non I due Papi, film su Bergoglio e Ratzinger (sempre di Netflix, alla faccia del product placement). Paolo Sorrentino giochicchia, sornione e con stile (“A Obama sono piaciute le mie rose”, dice Pope Francis), si rifà a un elemento portante della sua cultura partenopea (le riproduzioni miniaturizzate di personaggi famosi) e associa il suo gusto per le celebrities (The Young Pope e The New Pope, ma anche la regina d’Inghilterra di Youth per la quale deve esibirsi Michael Caine) alla propria vocazione per lo sberleffo aforistico. Cosa succede se la regina d'Inghilterra rimane bloccata a Roma dal Covid-19 mentre è in visita dal Papa? La risposta, si fa per dire, è in questo delizioso corto d’animazione (girato da Sorrentino nel suo appartamento romano), che ovviamente è il più divertente della serie, leggiadro e in permesso premio dall'inizio alla fine. Anche se nel finale c’è un tramonto su una Roma «vuota e disperata» e una strizzata d’occhio - quella sì, forse, un filo pretestuosa - a Viaggio al termine della notte di Céline, testo amatissimo da Sorrentino. I doppiatori dei pupazzi sono Javier Cámara e Olivia Williams, ma c’è spazio anche per un simil-Drugo Lebowski. La frase: «Io te siamo solo dei simboli, per questo non sappiamo fare niente». Chapeau . Voto: 8



RACHEL MORRISON - Los Angeles (USA)

Calzini spaiati, giochi della Happy Meal, capelli spettinati, palloncini che forse, afferrati tutti insieme, avrebbero potuto permetterci di spiccare il volo. La direttrice della fotografia di Mudbound, prima donna nera a essere candidata all’Oscar e DOP anche di Black Panther, risale all’isolamento dolce e totalizzante dell’infanzia (quello decisamente pre-Covid, per molti di noi), rivolgendo un’ideale missiva ai propri figli fatta di ricordi, sensazioni, esperienze memorabili proprio perché estemporanee. Un po’ Sundance, un po’ Malick, patinato e frammentario (il mix non è dei migliori), ma sincero. Voto: 6,5 

PABLO LARRAÍN - Santiago (Cile)

Una casa di riposo in cui sono morte in sette persone, più un’educatrice. Una conversazione in split screen tra un anziano, che comunica questo dato, e una donna alla quale l’uomo rivolge più di una dichiarazione d’amore, al cui cospetto arrossirebbe chiunque. La premessa sembra retorica, poi diventa lancinante e vagamente sinistra nella sproporzione tra ciò che viene detto e l’asetticità di ciò che viene mostrato sullo sfondo delle due cam: il ricordo dell’emotività e della fisicità si sfibrano, logorano a vicenda, si sovrappongono. L’eccitazione sessuale si fa poi - ma solo a voce- concretissima e palpabile, impudica e sfacciata, ma il banco da lì a poco salta definitivamente e il romanticismo e l’erotismo si moltiplicano (non diciamo come), aprendosi alla solitudine beffarda e al paradosso. Un corto insolito, scabro e originale com'è più che lecito aspettarsi da uno del talento di Larraín, con un finale disperato ed esilarante. Il migliore di tutti, probabilmente (evidentemente il regista cileno, essendo l'ideatore di tutta la baracca, ci si è impegnato parecchio nel tentativo di dare l'esempio e dettare la linea). Voto: 8,5

RUNGANO NYONI - Lisbona (Portogallo)

Dalla regista zambiana naturalizzata gallese, autrice di I Am Not a Witch, un corto su «una coppia che si lascia davvero durante il lockdown» portato avanti attraverso il dispositivo delle chat che si susseguono incessanti sullo schermo. Oltre alla pochezza dell’idea, c’è anche il fastidio abissale e insopportabile delle notifiche a getto continuo e delle relative suonerie, che non vengono silenziate nemmeno quando qualcuno, sommessamente, suggerisce l’idea (attirandosi immediatamente la stima virtuale di chi guarda). A un certo punto compare una foto di Silvio Berlusconi in chat nelle stesse ore in cui in Italia si parla della sua "riabilitazione" e il messaggio successivo è «scorri a sinistra» (proprio così). Giocare col fulmen in clausola aiuta se hai a disposizione la qualità di scrittura del precedente corto; in questo caso, facendo leva solo sul colpo di scena, molto meno…. Voto: 4,5

NATALIA BERISTÁIN - Città del Messico (Messico)

Come nel corto di Rachel Morrison (ma non sono gli unici due a farlo), i figli dell’autore prendono il sopravvento e si appropriano, non sappiamo se con la forza, della scena. Qui la regista messicana dà spazio alla figlia di cinque anni, senza ricercare in modo sterile la “bella immagine” e senza censurare il pianto, la delicatezza poetica, i pasticci cromatici auto-inflitti e quella solitudine abrasiva e violenta che può investire anche e soprattutto l’infanzia, specialmente in quei momenti vuoti in cui ci si ritrova a inventarsela. Ovviamente si parla di Spazi, come suggerisce il titolo in chiusura, ma sopratutto di spazi abitabili, fisici e non. Il finale, nella sua pudica semplicità e nel ricorso non fasullo e non ricattatorio allo sguardo in camera, è forse il più bello di tutta la serie e rimane decisamente impresso. Voto: 7,5

SEBASTIAN SCHIPPER - Berlino (Germania)

Il regista di Victoria, nel suo appartamento di Berlino, nell’arco di uno solo weekend di maggio, in totale solitudine: videogiochi, coperte sfatte, sbuffi, un piatto caldo di pastasciutta e un bicchiere d’acqua, una schitarratina con tutorial e poi senza, una rasatura fai-da-te ai capelli, una partita a scacchi (con se stesso, con la noia, con la morte?). Arruffato, basico, ma anche gioiosamente prossimo all’autoritratto incasinato, simpatico, dissonante e di pancia; nel suo piccolo, dunque, spassionatamente promosso. Voto: 6,5

NAOMI KAWASE - Nara (Giappone)

«Se tutto resterà così, cosa ci riserverà il futuro?»: la regista Naomi Kawase gira il corto col suo smartphone, in un paese (il Giappone) in cui il lockdown di fatto incredibilmente non c’è stato, ma incappa anche qui, come spesso accade nel suo cinema e in nemmeno sei minuti, in blandi languori che sanno di superfici appannate, di estetismo di maniera, di interrogativi filosofici di mera posa. Dietro lo spaesamento percettivo, numerico e (si vorrebbe) anche semantico non c’è quasi nulla, se non il soporifero monito a dedicarci all’arte e alla resilienza. E poi osservazioni che sono il festival della banalità new age di terz'ordine, nuvole in viaggio, aeroporti, frasi come «amate coloro che amate». Vabbé. Voto: 4

DAVID MACKENZIE - Glasgow (Scozia)

Il regista scozzese di Hell or High Water sceglie anch’egli un’ambientazione familiare che muove dal disagio di ritrovarsi in quarantena, scombussolati, alzandosi di colpo perché si ha fame o sentendosi ignorati e abbandonati. Bei volti in scena, ma tutto un po’ scontato e vagamente apocalittico nel definire l’epidemia da Covid-19 «l’evento più totalitario nella storia dell’uomo». Anche meno, Storia alla mano e fuor di retorica. voto: 5,5

MAGGIE GYLLENHAAL - Vermont (USA)

Maggie Gyllenhaal, attrice che esordirà con l’adattamento de La figlia oscura di Elena Ferrante, dirige il marito Peter Sarsgaard in un corto dalle tonalità autunnali e minimaliste, che ha il pregio di interrogare il paesaggio e la fauna che circonda l’ambientazione. Con le sue durezze, le sue nubi ma anche i suoi "rantoli di vita" boccheggianti. Niente di trascendentale, ma una confezione tanto ascetica quanto lussuosa, al servizio di un micro-racconto di solitudine e spaesamento. Il coté fantascientifico legato al virus è però un filo pasticciato e tagliato con l’accetta, pur non inficiando troppo il resto. «Girato in quarantena in Vermont, con sei persone, tra cui mio marito e le mie figlie, e altra gente generosa», recita la didascalia finale. Voto: 7



NADINE LABAKI & KHALED MOUZANAR - Beirut (Libano)

La regista Nadine Labaki e il marito e compositore, che con lei ha scritto il discutibile ma fortunato Cafarnao, non si sottraggono dall’idea dominante - quella di riprendere i propri figli, come dei Ferragnez qualunque - ma com’era prevedibile fanno il pieno di retorica acchiappona, con la loro bambina che indica i propri genitori e la sorella sullo schermo del computer e poi staziona in una stanza dal caos studiatissimo, mentre le immagini che la incorniciano collassano a vanvera. Un filmino familiare totalmente auto-referenziale e ovviamente fastidiosissimo, senza alcuna ragione per essere mostrato al di fuori del proprio compiacimento ombelicale. Voto: 3



ANTONIO CAMPOS - Springs, New York City (USA)

Dal regista del sottostimato Christine, un blando cortometraggio che tenta di trasformare il virus in un qualcosa di paranoico e orrorifico a partire da una spiaggia e dalla presenza di un uomo col terga al vento, ma risulta solo vacuo e arrischiato come tanti home movies che giocano con delle paranoie sci-fi puntando sulla grana stropicciata un tanto al chilo. Prossimo al bluff, e tra i peggiori di tutto il pacchetto (se non ci fosse la Labaki sarebbe il nadir assoluto, a occhi chiusi e a mani basse). Voto: 3,5

JOHNNY MA - San Sebastián del Oeste, Jalisco (Messico)

Dall’apolide Johnny Ma, una lettera alla madre che saggia la lontananza della genitrice: il regista si definisce “il figlio che non c’è mai” e, nel cinquantesimo giorno della sua quarantena, che corrisponde proprio alla festa della mamma, si inerpica in uno scivoloso epistolario che agli spettatori ha ben poco da dire oltre al profumo di aglio e scalogna e ai ravioli. Il regista scomoda anche il fuoco e le fiamme, ma del suo corto non rimane un granché (anche qui c’è un uso strumentale dei bambini come presunto salvacondotto narrativo, tanto per cambiare). Voto: 5

KRISTEN STEWART - Los Angeles (USA)

Delle sbarre, un cambio di fuoco della macchina da presa, una Los Angeles uggiosa, una Kristen Stewart sofferente e spettrale, vagamente simile alla Claire Foy di Unsane di Steven Soderbergh (ma infinitamente meno interessante, purtroppo). Un aereo che passa, un desiderio abbozzato, una faccia buffa, ma soprattutto una stucchevole sequela di primi piani, ora inutilmente accelerati e sgranati ora inerti. Tutte cose che a Kristen perdoniamo anche, per carità, ma forse non saremmo così generosi con altri (soprattutto vista la quantità di fuffa nei soli 10 minuti di durata, che oltre ai grilli per la testa scomodano anche i grilli quelli veri). Voto: 5 



GURINDER CHADHA - Londra (UK)

La regista di Sognando Beckham e Blinded by the Light, cineasta di origini indiane trapiantata ha Londra, firma uno dei corti più solari di tutta l’operazione, e sicuramente uno dei meno pretenziosi e intellettualistici. Riuscire a far sempre Londra un posto solare è già qualcosa e il corto, anche se aggiunge poco al resto, scorci londinesi di Primrose a parte, almeno non è irritante e si offre come un onesto filmino di famiglia in cui ci si scompiscia guardando Boris Johnson e ci si divide con generosità tra odori, colori e sapori. Con un finale che si rivolge anche, senza ricatti, ai cari perduti durante il lockdown. Montato da una giovane (e brava) documentarista italiana emergente, Miriam Palmarella. Voto: 6

SEBASTIÁN LELIO - Santiago (Cile)

Non poteva mancare Lelio, amico e compagno di merende di lungo corso di Larrain, all’interno di questa selezione di corti fatti in casa. Nel suo corto troviamo donne che si coprono il volto in vario modo, gemiti quasi sessuali, frasi (anche cantate, sopratutto cantate) sul fatto che forse sarebbe stato meglio un musical, o un saggio filosofico, per descrivere un momento così doloroso. Oltre al (consueto, per lui) magnetismo con cui Lelio sembra studiare le figure femminili in rapporto alla presenza additiva della musica (intra o extradiegetica, come in Gloria e Una donna fantastica), creando doppi e proiezioni qui sfiatati e di nessun interesse, nient’altro da segnalare, a parte un verso da 0 immediato in qualsiasi pagella sanremese (“Vedo ruggine negli angoli della mia anima e della mia cucina”). In definitiva un musical girato con un iPhone che vorrebbe essere "un algoritmo per sopravvivere" (sic), ma finisce soltanto per far alzare più di un sopracciglio. Voto: 5

ANA LILY AMIRPOUR - Los Angeles (USA)

A chiudere la sarabanda di corti, non tutti memorabili ma nell’insieme stimolanti e sintomatici anche nelle brutture, almeno come esperienza di visione d’insieme, ecco il lavoro di Ana Lily Amirpour, la regista dell’acclamata A Girl Walks Home Alone at Night e del controverso ma liberissimo The Bad Batch. Qui in scena c’è lei stessa (il titolo è Ride It Out, “pedala e passerà”), a volto coperto, che sfreccia sulle strade di Los Angeles con la sua bici e con la voice-off, ovviamente narrante, di Cate Blanchett. Il giorno designato in cui ci troviamo è il 15 maggio 2020, le carreggiate sono vuote e silenziose, non c’è più l’aggressività dei clacson, delle auto, del trambusto di un tempo che pare lontanissimo. Il corto si parla sicuramente addosso, ma come radiografia di uno spazio e di un tempo ben precisi (ci sono anche l'Hollywood Boulevard e Chinese Theatre, luoghi chiave della Mecca del cinema) ha il suo valore quantomeno topografico e contingente. C’è anche una battuta sull’estinzione dei dinosauri, ma per fortuna il nostro Albano Carrisi non c’entra. Voto: 6,5  



Davide Stanzione
Maximal Interjector
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