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I soliti sospetti: i 25 anni del thriller che continuò a farci credere alla grande menzogna del cinema
25 anni fa faceva il suo debutto nelle sale italiane un film destinato a diventare un vero e proprio cult, una pellicola diventata un’icona di quello fu il cinema degli anni ’90: stiamo ovviamente parlando di I soliti sospetti, diretto da Bryan Singer e uscito nel 1995. Secondo lungometraggio del regista, fu anche un vero e proprio trampolino di lancio che portò alla ribalta il nome di Singer, lanciandolo poi verso produzioni importanti come la saga degli X-Men.

Fiore all’occhiello della pellicola è uno script capace di mettere in scena una vicenda contorta che, durante il suo svolgimento, si snoda con facilità e semplicità disarmanti: ne è esempio calzante la lunga conversazione tra l'ispettore di polizia e Verbal Kint (Kevin Spacey). Fulcro assoluto della pellicola è l'efficace descrizione di Keyzer Söze, personaggio quasi demoniaco, la cui crudeltà ed efferatezza vengono trasmesse senza mai mostrarne il volto: entità intangibile e inafferrabile, mezzo per esaltare un'inquietudine quasi angosciante.

Singer gioca con uno spettatore che si rivela essere l’inconsapevole vittima, proprio come il detective, della fitta rete di menzogne intessute nel racconto di Verbal. Il tacito accordo tra autore e spettatore viene così, senza troppe remore, infranto: i flashback che danno vita e immagini al racconto di Verbal altro non sono che finzione. Singer è abilissimo nel tenerci all’amo, persino le scelte delle inquadrature dell’interrogatorio di Verbal sono costruite ad hoc per trarci in inganno: un semplice campo e controcampo in cui il detective viene spesso inquadrato dal basso verso l’alto, angolazione che viene impiegata per sottolineare il suo grado di preponderanza rispetto al sospettato (seduto sulla sedia), il quale viene invece inquadrato dall’alto in basso. Abbiamo così la sensazione che sia il detective a muovere le fila e illusione e inganno, ben orchestrati, trovano ulteriore beffa nel momento della rivelazione finale.



Quando il detective inizia a ricomporre il puzzle di indizi disseminati della stanza, lascia cadere la tazza del caffè, quest’ultima si infrange al suolo rivelando il nome “Kobayashi”: l'ennesimo spunto di ispirazione della storia raccontata da Verbal (Kobayashi è infatti il nome dell’avvocato di Keyzer Söze). È ironico notare come proprio la posizione di inferiorità ricoperta dal personaggio di Spacey (seduto su una sedia e costretto a rapportarsi con il detective dal basso verso l’alto) gli abbia in realtà permesso di tessere quella rete di menzogne nella quale, sia noi che il poliziotto, siamo finiti intrappolati.







I soliti sospetti, insieme a titoli come Il silenzio degli innocenti (1991) e Seven (1995), rappresenta in virtù di tutti questi aspetti quel filone di film thriller/investigativi che ha contraddistinto gli anni ’90. A metà pellicola Singer è abilissimo a spostare il focus del detective e di noi spettatori: la domanda a cui tutti noi vogliamo trovare una risposta è “chi è Keyzer Söze?”. Per noi investigatori la risoluzione finale a questa domanda avrà un costo altissimo: scoprire che tutto ciò a cui abbiamo assistito, tutte le parole dei Verbal (che altro non è che lo stesso regista, colui che muove i fili della narrazione) e tutte le immagini che ci sono state spacciate come vere, altro non fanno che contribuire a tenere in piedi la grande menzogna, la finzione di cui lo stesso cinema si fa portatore.

Simone Manciulli
Maximal Interjector
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