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Il cinema di Lars von Trier: i vostri elaborati!

Al termine del workshop dedicato a Lars von Trier, abbiamo proposto ai partecipanti di redigere un elaborato su un elemento emblematico del cinema del grande regista danese. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Michaela Antenucci
MELANCHOLIA
La definizione che danno gli psichiatri italiani Ernesto Lugaro ed Eugenio Tanzi di melancolia è la seguente: "la melancolia è la sindrome affettiva che ha per note fondamentali una tristezza morbosa e ostinata indipendente dagli avvenimenti esterni, un pessimismo invincibile, un senso profondo di sfiducia e di avvilimento che paralizza l’azione".


Nel film di Lars von Trier, Justine rappresenta tutto questo, Lei è la melancolia.
Justine risulta priva di qualsiasi filtro ed apparentemente anche del raziocinio e di ogni forma di altruismo, e nel suo giorno più bello realizza che la terra è cattiva. 
Cattiva perché limita il suo modo di essere, non la capisce e tenta di “paralizzarla” con le sue redini naturali: il matrimonio, la famiglia, il lavoro, la società, l’immagine.
Con difficoltà cerca di divincolarsi e di scappare fino ad arrendersi all’ineluttabile. 


Justine è divinatrice della melancolia: è lei a scatenare i campi magnetici.

Illuminata dall’alto risulta divinatrice e divina al tempo stesso.
La troveremo più avanti ad accogliere con la sua nudità - il suo corpo - il calore e la luce del corpo celeste Melancholia.

Justine è la melancolia, e la melancolia distruggerà il mondo così come conosciuto fino a quel momento.
È la fine del proprio mondo, la fine di tutto il mondo!

La sorella Claire, raziocinio ed apparente tranquillità, da sempre in contrapposizione ai modi di fare di Justine ed estremamente legata alla terra ed alle sue redini naturali, troverà proprio in Justine una guida per affrontare la fine del mondo.

Sarà proprio la distruzione del mondo, della terra, dei legami familiari a portare serenità in Justine.
L’autodistruzione condurrà Justine alla serenità. 

Marco Ceriotti
SUGGESTIONI DA MELANCHOLIA
Chissà che Lars von Trier, nella sua fatalistica distopia denominata Melancholia, non volesse darvi una connotazione diversa dall’avvilimento emotivo cui la Terra va inesorabilmente incontro (identificato appunto nel pianeta omonimo). Una pandemia da virus, ad esempio.
Qualcosa che inizialmente si intravede da lontano e si manifesta solo da un bagliore anomalo, ma che contemporaneamente è già in grado di esercitare un influsso negativo su alcuni soggetti più sensibili, al punto da raggiungere uno stato di assuefazione, come si farebbe con una tintarella integrale.
Qualcosa che addirittura, appena scoperto, risulti quasi divertente osservare – a distanza di sicurezza e coi dovuti strumenti, telescopio o microscopio che siano; osservarne la fenomenologia e lo sviluppo, rimanerne affascinati ma senza mai oltrepassare la soglia di allarme, quella accende il senso del pericolo. Cercare di rassicurare i propri cari che non ce n’è di pericolo, sia quelli che hanno la stessa opinione che quelli con un timore che non si seda solo a parole. Perfino coinvolgere i più creativi a fabbricare essenziali strumenti per misurare l’evoluzione del fenomeno.
Qualcosa da cui inizialmente sembra che riusciamo a scansarci per un soffio, ma che poi – complici dei calcoli errati della scienza, purtroppo non infallibile – dopo averci illuso, ci investe con la sua furia distruttiva, coinvolgendo tutto il pianeta e tutte le nazioni, apparentemente senza lasciare intravedere alcuna via di fuga.
Chissà che Lars von Trier, oltre a tracciare una tendenza pessimistica all’estremo, non abbia invece voluto lanciare un monito per qualcosa che stava per arrivare; qualcosa di enorme e universale, che avrebbe cambiato tutto e che avrebbe richiesto calcoli esatti e largo anticipo per poter farvi fronte.

Lucia Cirillo 
“IL GRANDE CAPO” IN “PERSONA”
Espediente decisamente non nuovo quello di introdurre un film con l'inquadratura di un regista “a bordo” della sua cinepresa che introduce lo spettatore alla storia: Hitchcock ne ha fatto un suo marchio di fabbrica, Godard un pretesto per le sue sperimentazioni meta-cinematografiche, Bergman un tratto di stile di impronta filosofica. Probabilmente è proprio con Bergman che si potrebbe azzardare un collegamento legato alla scelta – estetica, stilistica e concettuale - operata da Lars Von Trier per l’incipit del suo Il grande capo, commedia un po’ anomala sul significato di responsabilità derivante dall’esercizio di un potere di cui non si sa gestire il peso. Sulla scorta di queste premesse, non sembra troppo azzardato trovare in questa commedia, lieve solo in apparenza, più di un collegamento proprio con una delle opere più sperimentali e di maggiore spessore concettuale di Bergman, come Persona. Anche in questo caso siamo al cospetto di un incipit che ci avverte di come tutto quello che sta per accadere sia pura finzione: una serie di fotogrammi montati con una sequenza psichedelica, interrotta da una pellicola che si dipana e poi ad un tratto si chiude con l'azione di un bambino che tocca uno schermo, come a dire “Attenzione, state per assistere ad una rappresentazione”, una presa di distanza dall’opera a cui demandare l’intera responsabilità di quello che offrirà allo spettatore .
Con l’incipit de Il grande capo Lars Von Trier compie un'operazione del tutto assimilabile a quella di Bergman, mostrandosi soltanto come riflesso di se stesso, assieme alla sua cinepresa e addirittura al di fuori del set in cui si svilupperà l'intera narrazione, come a dire che il suo essere altrove lo solleva da ogni responsabilità o colpa per quanto sta per accadere e che lo spettatore sta per guardare. Lui si limita a “riflettere” per noi, e con noi, sul complesso meccanismo di reazioni che può provocare la falsa rappresentazione della realtà di cui fanno parte. Sono prede inconsapevoli di un capo che non vuole assumersi il rischio e le responsabilità del potere che esercita. E poi c’è un attore, a cui demanda temporaneamente tutto il peso di essere un “vero” capo, con la speranza di riuscire poi a conservare intatto solo ciò che del potere gli piace. Ma l’attore starà al gioco soltanto fino a quando lui stesso non capirà che il vero detentore del potere è ormai proprio lui, con la verità che ha in mano e con la quale può condizionare la vita di chi è ancora all'oscuro di tutto.
Il teatro ha il potere della verità, e poi di renderla palese ribaltando l’inganno da cui la storia “vera” prendeva le mosse.
Come in Persona ritroveremo un protagonista e un attore di teatro a fargli da alter ego, quasi a suggerire – in entrambi i film – una sorta di sudditanza, o di complementarità, del cinema verso il teatro in quanto forma d'arte imprescindibile per riuscire a raccontare l’”altra” verità.

Il cinema e il teatro mi interessano. Io provo una grande ammirazione per gli artisti, credo che l’arte di recitare abbia enorme importanza nella vita” (Persona)

In Persona le scene finali sono quelle di un set che si palesa assieme alle ultime inquadrature di un regista dietro la macchina da presa. Ne Il grande capo ritroveremo un giocoso regista, molto compiaciuto di una commedia forse lieve (forse tutt'altro) e della quale non si assume alcuna responsabilità. Pare che questo rientri pienamente tra i suoi poteri.

Martina Corvaia
LARS VON TRIER TRA LUCE E OBLIO 
«Quando avevo dieci anni ho scoperto che, attraverso il negativo, vedi la vera qualità demoniaca insita nella luce: la luce oscura» Lars von Trier, La casa di Jack. Se il perturbante avesse le sembianze di una persona, quella persona sarebbe Lars von Trier. E non è tanto per la sua personalità, seppur controversa e anticonformista per eccellenza ma unica nel suo egocentrismo rivoluzionario, quanto per l’intelletto geniale che si nasconde dietro quell’uomo che ha scritto di proprio pugno una sceneggiatura così ipnotica che ha scosso spettatori e critici di tutto il mondo. Un modo per farsi vedere, alla maniera insolita di von Trier. E se The House That Jack Built potesse avere un filo di voce, direbbe senza dubbio che von Trier si è messo a nudo, che ci ha raccontato la sua vita tormentata intrisa di traumi infantili, che ha dato libero sfogo alla sua anima nella maniera più pura che conosce: attraverso una camera a spalla e uno schermo che colpiscono noi spettatori come un pugnale nel cuore, e noi siamo suoi, gli apparteniamo come la sua vessazione appartiene a lui sotto forma di un’ombra che sempre lo seguirà. Quegli occhi puntati sulla telecamera che ci guardano con le mani sporche di sangue per il suo primo omicidio ci spaventano e quel primo piano con un accenno a un sorrisino malizioso che ricorda Norman Bates del Psyco hitchcockiano ci provoca un brivido lungo la schiena che rimane per tutto il film fino all’epilogo finale. E questa non è una sensazione che si prova con chiunque. Anzi, bisogna saperci fare e von Trier ci riesce benissimo. C’è una scena che fa molto riflettere: al di là della perfezione che vuole raggiungere nei suoi omicidi come se fossero delle opere d’arte perfette, fin da bambino capisce che ciò che governa l’uomo e lo spinge a commettere azioni brutali non è tanto l’indole predisposta congenita nell’anima nera, quanto la luce. In un fotogramma, la luce appare luminosa, chiara, rende reale il momento, lo cattura e lo abbellisce, ma non se vista in negativo: lì si nasconde il demone, l’oscurità che offusca la mente e la danneggia. Ed è lì che un bambino cresce disorientato, lontano dagli affetti familiari e scopre una vita fin da subito pessimista in grado di portarlo sull’orlo di un precipizio e come non pensare alla storia del serial killer che si beffa per dodici anni della polizia, divertendosi nella sua crudeltà e perfezionandosi sempre di più per costruire la casa che aveva sempre immaginato ma rendendosi conto, alla fine, a mio parere, che la perfezione risiede nell’animo umano e non in un oggetto materiale. Quella nobiltà d’animo tanto agognata da Dante che viene rivisitata in chiave letteraria sotto un altro punto di vista: non bastano metafore letterarie, discorsi filosofici, quadri artistici che prendono vita in uno scenario macabro a spiegare e a entrare dentro la mente di un regista eccezionale; qui si va oltre e c’è molto di più. E la catarsi finale, l’epilogo che tutti attendiamo, è rivelatore di una concezione che trascende la realtà: da una parte Dante e Virgilio, sua guida spirituale nell’Inferno della Divina Commedia, e dall’altra Jack, indiscutibile alter ego di von Trier, e Virgilio, a mio parere la sua voce interiore che lo accompagnerà per sempre nel suo viaggio all’interno della propria anima, che iniziano un percorso destinato all’oblio senza possibilità di ritorno. Non c’è una guida, von Trier non ha una guida: è solo e da solo parla con sé stesso per trovare una soluzione al suo innato cinismo, senza esito. Una seduta spirituale a tutti gli effetti verrebbe da dire, ma senza uno psicoterapeuta in grado di aiutare alla maniera freudiana con la sua psicanalisi. Non si può guarire un male inguaribile. Il finale ci conferma le nostre sensazioni: uno sguardo ai Campi Elisi (lo sguardo, tema caro a Stanley Kubrick) e l’intera esistenza che scorre tutta in un attimo nella mente di Jack non bastano a farci pensare che la purificazione dei propri peccati sia in atto e, insieme a Virgilio (Trier stesso, il famoso egocentrismo che sempre ha avuto), si ritrovano faccia a faccia davanti al precipizio infernale che tutti conosciamo, avvolto da un fuoco incandescente che arde costantemente e Jack/Trier prova a superarlo, si arrampica, si aggrappa alla speranza che forse non ha mai smesso di cercare dopo il periodo di depressione, e cade tra le fiamme della luce più oscura di tutte vista in negativo: quella luce che conosceva da troppo tempo e che lo divorerà risucchiandolo per sempre. È innegabile che questo film sia l’acme di tutta la sua carriera: più generi cinematografici si concentrano diventando un tutt’uno con la cinepresa, scene dei suoi precedenti film su uno sfondo di morte si risvegliano dal loro lungo sonno e si mescolano alla grande erudizione letteraria, filosofica, artistica di von Trier, oltretutto grande appassionato di arte nella sua forma più pura, oltre a musiche in sottofondo che forse celano messaggi nascosti e provocatori di cui noi, in qualche modo, sembriamo provare quasi un piacere sadico, o forse è proprio questo che vuole il Mister Sophistication/Lars: farci vedere l’altra faccia della medaglia provando a immedesimarci in lui, se mai ci riusciremo. 

 

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