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Venezia 76: la masterclass di Pedro Almodóvar, tra desiderio e scandali

Ieri si è svolta la masterclass di Pedro Almodóvar, Leone d'Oro alla Carriera alla Mostra di Venezia di quest'anno. La chiacchierata, moderata da Piera Detassis, ha toccato molti temi, partendo da Dolor y Gloria, per passare dalla prima Super8 comprata dal regista spagnolo e arrivare al suo rapporto con l'arte come terapia.

DOLOR Y GLORIA Y DESEO

 Nel mio ultimo film è importante la parola  "desiderio", sarebbe potuta essere nel titolo. Il desiderio è un sentimento fondamentale, nel lavoro e nella vita, e si può vedere dalla scena in cui si esplora la nascita del desiderio, una pulsione avvertita da un bambino che ancora non sa darle un nome. E anche nel nel momento in cui il personaggio di Antonio Banderas incontra di nuovo l'amore della sua vita lo spettatore si rende conto che il desiderio esiste per tutta la vita. 

Inoltre El premier deseo è il titolo del film nel film. Io ho sempre saputo di voler fare cinema nella vita, anche quando, nel 1971, lavoravo in una compagnia telefonica, ma la scuola di cinema di Madrid dove volevo andare era stata chiusa da Franco. Così ho usato i miei soldi per comprare una piccola Super8 e decisi che quella sarebbe stata la mia scuola. Mi sono auto-proclamato regista e ho cominciato a sperimentare e a imparare, scrivendo io, fino a quando non ho iniziato a girare con mezzi più sofisticati. 

Come tutte le cose importanti della vita, il cinema lo si impara facendolo. La prima volta in cui ci si trova su un set, a usare il linguaggio giusto, sembra di stare inventando il cinema. Quindi non aspettate di avere a tutti i costi un diploma di una scuola, guardatevi dentro e cominciate a raccontare le storie che avete nel cuore. Ma guardatevi anche intorno. Tutto ciò che serve è che le storie siano sincere, è l'unico modo per farle funzionare.

RIFERIMENTI CINEMATOGRAFICI

Io vivevo in un paese dell'Estremadura dove la mia famiglia è migrata, come in Dolor  y Gloria, all'inizio degli anni '60. Mi ricordo perfettamente la gioia durante l'estate perché era il periodo in cui guardavamo i film proiettati sui muri bianchi del paese. Non c'era un ordine preciso nelle proiezioni, si mischiavano spaghetti western, al cinema messicano, di fantasia, a film di Buñuel, Antonioni, Orson Welles.

A 10 anni, poi, sono stato spedito a studiare nella capitale della regione, dove potevo vedere le pellicole più commerciali, americane, e in modo più ordinato. È lì che mi sono innamorato del Technicolor, che ancora oggi cerco di riprodurre nelle mie opere. Per una questione di chimica e per il modo di sviluppare tipico dell'epoca, il Technicolor regalava colori vibranti, irreali, intensi. Ho sempre trovato che questo tipo di esagerazione funzioni bene per i miei personaggi e per le mie storie. 

Sono un grande ammiratore del cinema italiano, durante la mia adolescenza ne vedevamo molto e trovo che il neorealismo è un genere sempre attuale che non ha bisogno di essere ricontestualizzato. Sono un fannon solo dei grandi nomi ma anche di altri registi - Bolognini, Zurlini, Germi, Scola, Risi. Ferreri mi piace, è strano, lo vedo come un regista spagnolo, un po' perché ha fatto i primi due film in Spagna e un po' perché ha girato con attrici con cui poi ho lavorato anche io. I suoi film mi piacevano e mi ci identificato.

ARTE E CAMBIAMENTI

L'arte nei miei film è importantissima, serve a definire sia i miei personaggi sia me stesso. Uso spesso i miei quadri. in Dolor y Gloria, Banderas vive isolato in una solitudine che ha accumulata nel tempo e che si è aggiunta alla depressione. Questa è dovuta anche alla lontanaza che sente rispetto al cinema, dal momento che teme di non fare più film. I quadri alle pareti sono indicatori del successo che ha avuto, l'unica prova della parola "gloria" che troviamo nel titolo. Sono la sua unica compagnia: ho sempre pensato che l'arte, il cinema, i libri, siano i migliori compagni per riempire la solitudine. 

Per me è indispensabile aggiungere quadri sulle pareti degli appartamenti dei miei personaggi: la prima volta che non l'ho fatto è stato in Julieta, per evidenziare il vuoto della perdita della figlia. Il vuoto comincia a riempirsi quando vediamo i primi poster, che praticamente si trasformano a loro volta in dei personaggi attivi.

Poi ovviamente fare cinema vuol dire unire in un film molteplici discipline e arrivare a una determinata inquadratura. La ragione di certe scelte dipende da ciò che vuoi mostrare e dalle informazioni che vuoi dare al pubblico, da quello che devi raccontare: un primo piano può diventare complesso e racchiudere l'intera essenza di un film. Mi muovo basandomi sull'intuizione, ma quello che ho notato, negli ultimi due film, è che mi vado avvicinando sempre di più agli attori con la macchina da presa. I personaggi mi sono sempre interessati ma ormai gli aspetti più barocchi dei miei film si stanno riducendo. 

Chiaramente spero che i miei film siano cambiati nei miei 30 anni di carriera. Le opere cambiano per la necessità di non ripetersi ma anche per l'età biologica. Credo che negli anni '80 i miei film rappresentassero la mia vita e la Spagna dell'epoca e questo si può vedere anche nell'ultimo film, dal momento che tre dei personaggi sono cresciuti in quell'epoca. 

A partire da Il fiore del mio segreto, però è cominciato un diverso tipo di cinema per me e questo cambiamento culmina all'inizio del 2000 con Tutto su mia madre, Parla con lei e La mala educación, tre film che sono essenziali nella mia filmografia perché raccontano ciò che ho imparato nel corso del tempo e parlano del mio rapporto rispetto al luogo in cui vivo. Credo che questa traiettoria sia poi continuata durante questo secolo, da La pelle che abito, a Julieta, più contenuto e austero, così come Dolor y gloria.

DONNE  E  SCANDALI VENEZIANI

Le donne sono più divertenti da raccontare, gli uomini più noiosi. Spesso creo sequenze che evidenzino il potere della donna. Per esempio, credo che nessun uomo avrebbe potuto concepire di usare del prosciutto come arma o che potesse decidere di trasformarlo in una pietanza, per far scomparire l'arma del delitto.

Ho superato tante cose nella mia vita ma non vedo le miei azioni come rottura contro ostacoli da superare e non vedo la mia vita in termini di vittore e sconfitte. Nel 1963 però ottenni una vittoria contro la censura, rappresentata dalla persona di Gian Luigi Rondi, della D.C. Quando il comitato di esperti selezionatori del Festival di Venezia aveva proposto il mio film Rondi lo dichiarò osceno e anticlericale, inadatto al festival. I problemi con Rondi, però, hanno superato i confini della commissione ed sono arrivati alla bocca della stampa: di conseguenza si alzò un polverone e non si potè fare a meno di proiettare il film. Questo ha segnato il mio battesimo come cineasta a livello internazionale e anche la vittoria contro le intolleranze demo-cristiane. 

Credo che la società ormai stia parlando molto delle diverse identità presenti sullo spettro sessuale, transessualità compresa. Attualmente c'è molta più apertura e questo è buono. Le persone sono ciò che credono di essere ed è un passo importante riuscire ad arrivare al rispetto delle persone per ciò che sono.

Non voglio pensare di poter dare lezioni. In alcuni film ho seguito consigli di altri, come in Donne sull'orlo di una crisi di nervi. In questa pellicola mi sono affidato a Truffaut: "In tutte le pellicole i registi devono insegnare qualcosa, avere un intento pedagogico". Così Carmen dà la ricetta del gazpacho, che io ho "rubato" alle mie sorelle. Quando il film uscì negli Stati Uniti nessuno sapeva che cosa fosse e ora è nei menù dei ristoranti.

Nei i miei film, comunque, si attraversano spesso situazioni difficili e deliranti. Ciò che permane sempre è la libertà dei personaggi: non si fanno bloccare dai pregiudizi, non importa la classe sociale. Tutti i ruoli che creo mantengono un'autonomia morale e credo che ciò differenzi i miei film. Come regista sento la responsabilità di questa loro libertà.

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